Dicembre: tempo di sciarpe, code, regali, abbuffate e riepiloghi, per fortuna non solo esistenziali.
I 10 film migliori, i 10 libri, i 10 dischi, i 10 fallimenti dell’Arsenal, le 10 migliori pizzerie aperte negli ultimi 26 minuti. Basta!
[Cose mangiate nel 2016 che ci sono piaciute parecchio]
Quest’anno sposo l’anarchia ed elenco alcune cose a caso, le gastrocose appunto.
La sana e antica trattoria
Non è mai morta, non ho mai smesso di amarla e non ho alcuna voglia di recitarne la solita messa retorica, fatta di volti, quadrettoni e facce antiche, ma quest’anno la mia voglia di trattoria è tornata a livelli adolescenziali. Sarà che sono saturo di destrutturazioni, crossover, piatti crudi e accostamenti accademici, ma per me il convivio col sorriso rimane nel binomio sostanza/abbondanza.
Tanto che nel 2018 intendo proporre una mia rubrica personale sul tema, un omaggio al cibo del paese reale. A quello buono però, sempre più raro, visto che il settore è invaso da un cancro quasi incurabile: la qualità bassissima.
Il Limoncello di Villa Massa
Umiliato, banalizzato e devastato, il limoncello è agli occhi di tutti il liquore che fa la nonna astemia, tra una faccenda e l’altra, o il brutto liquido al sapore di detersivo per i piatti che offre a fine pasto il ristorante dedito al giropizza il sabato, sfruttando l’offerta a 0.99 euro del discount di zona.
Fortunatamente non è esattamente così.
Me ne sono accorto visitando Villa Massa, un’azienda familiare di Sorrento che produce il miglior limoncello che abbia mai provato. Piglio e filosofia artigianale, accortezze tecniche, amore per il tanto evocato territorio. Risultato: un distillato serio che odora e sa di limone!
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Ma se qualcuno avesse ancora problemi con la dolcezza provatelo con una buona tonica e un gin come si deve, per un cocktail di insospettabile freschezza.
Dal Gin tonic del mixologist hipster al Gin tonic casalingo
A proposito di gin e di acqua tonica. Tra i sintomi più acuti della crisi del quarantenne è arrivata forte e chiara l’esigenza del Gin tonic casalingo. Non sono un fine conoscitore di distillati, ma ho provato parecchi gin (tra i miei preferiti, Monkey, Sabatini, l’Agricolo Gadan e il Barmaster Bonaventura Maschio) comprendendo però, progressivamente, l’importanza di una buona tonica.
Lo so, sto scoprendo l’acqua calda o dirò una banalità da bignami del bartenderismo (?), ma se innaffiate il miglior gin con una tonica di bassa qualità il fallimento sarà indicibile.
Mi sono buttato sulla Fever Tree, ma attendo altri suggerimenti.
L’esperienza in un ristorante
Ho mangiato due volte in un anno da Aqua Crua e se dovessi calibrare la mia decisione sulla sola cucina non sarebbe la mia menzione dell’anno. In ogni occasione ho riscontrato alti e bassi, con quest’ultimi dovuti sicuramente alla voglia di fare e sorprendere, a volte anche eccessiva, tra evocazioni e cotture/non cotture un po’ estreme.
Ma il luogo e l’esperienza per me merita il classico weekend di fuga gastronomica. In primis, perché il vicentino è zona fantastica e sottovalutata.
Il consiglio è di rimanere a dormire, così vi scolate una bella bottiglia (la carta dei vini è notevolissima e lontana dal solito barocchismo brandizzato di molti stellati) e la mattina vi regalate una colazione che se non vale la cena siamo lì.
Salame Varzi
L’Oltrepò pavese è un’altra delle zone italiane che sconta pratiche politiche, agronomiche e consorziali di rara cecità. Sono certo che nell’immaginario sia la zona dei vinacci economici che ti aspetti in pianura.
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Peccato che sia un vasto comprensorio collinare capace di vette paesaggistiche e qualitative considerevoli. Se bevete a caso fatevi il segno della croce, se avete i pusher giusti potreste cambiare idea. Vogliamo lasciare stare il vino? Ok, parliamo del salame di Varzì.
Che è un insaccato nobilissimo, prodotto con le parti migliori del maiale e capace di raggiungere vette clamorose. Qualche nome? Porro, Magrotti, De Domenici e Vecchio Varzi su tutti. Inoltre, ogni produttore di vino della zona non resiste al desiderio di farsene una piccola produzione casalinga che vi metterà sotto il muso mentre assaggiate qualche bottiglia.
Gricia
Qui è colpa dell’apertura milanese di Felice al Testaccio, con cui ho anche iniziato a collaborare, quindi non sto qui a celebrare il ristorante ma la mia voglia di gricia, sommersa da un decennio dominato dalla carbonara, ben più celebre e celebrata, ben più complessa nell’esecuzione.
La carbonara è il piatto della vita, non scherziamo, ma anche il destino ineluttabile di un romano trapiantato a Milano con il pallino dei fornelli. La classifica delle migliori però la lascio fare a voi, che appena vado a Roma verifico lo stato d’arte del piatto.
Interiora reloaded
La riscoperta delle parti meno “nobili” avanza inarrestabile nonostante i tempi bui per i carnivori irredenti. Personalmente non riesco a resistere a questi sapori.
Se trovo lingua e diaframma (il pezzo più adatto alla riconversione dei suggestionabili) in una carta è impossibile che non le ordini, bramo per la coratella con i carciofi o la trippa di baccalà, ma l’animella rimane il punto di non ritorno.
Se volete divertirvi sulla piazza milanese provate naturalmente Trippa, ma anche Rebelot e Al Mercato. Per un godimento street, invece, Macelleria popolare in Darsena è la sosta obbligata.
Farinata
Da ovvio spuntino di ogni trasferta ligure (l’ho sempre preferita alla focaccia, tranne a quella di Recco che mi manda fuori di testa), fino a diventare un’ossessione quotidiana, ma sono in generale i ceci a dominare la mia dieta ultimamente.
La generale mediocrità riscontrata nei forni milanesi mi ha convinto a cimentarmici spesso a casa. Come tutte le preparazioni avrà quelle sue 2577 diversificazioni segrete, eppure ogni volta che la inforno mi chiedo come la si possa sbagliare…
I vini dello Jura
Francia orientale: 80 chilometri di gioia enologica tra i villaggi di Salins-les-Bains e Saint-Amour. Qui i vini hanno un carattere selettivo e peculiare: sposano un gusto molto moderno tutto giocato sulla tensione e la sapidità, piuttosto che sulle morbidezze e l’esplosività olfattiva.
Gli autoctoni a bacca rossa (Poulsard e Trousseau) hanno beva clamorosa e non sono molto noti, mentre il Savagnin è un bianco abbastanza conosciuto, soprattutto perché è la base del Vin Jaune, la più iconica delle tipologie della regione, vinificata con una tecnica assimilabile a quella dello sherry.
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Meno interessante il Pinot nero che patisce il confronto con la Borgogna, mentre lo Chardonnay tocca vette di espressività e longevità incredibili senza scimmiottare il modello borgognone, appunto.