Nell’ampio spettro dei comportamenti umani, uno dei più perniciosi è la rassegnazione.
La rassegnazione è un sentimento privo di speranza, scuro come una bistecca lasciata al sole. Almeno per come la intendo io (c’è naturalmente molta letteratura in proposito, e io concordo con Thoureau per cui la rassegnazione è “disperazione rafforzata”).
Direte: ma perché diamine stiamo parlando di rassegnazione su un sito dedicato alla gastronomia?
La risposta è che nelle ultime ventiquattr’ore mi sono successe due cose spiacevoli, in altrettanti locali. Due avvenimenti così frequenti che ormai mi ci ero quasi rassegnato.
— Il primo: ieri al ristorante non mi hanno fatto la ricevuta. Peggio: hanno fatto finta di farmi la ricevuta, nel senso che mi hanno portato un “preconto”, ma poi non mi hanno dato il documento fiscale.
— Il secondo: stamattina al bar mi hanno fatto un caffè schifoso. E dire che abito in Italia e in una città famosa nel mondo per le proprie torrefazioni. Ma il caffè schifoso al bar è una consuetudine, è più facile trovarlo cattivo che –non dico: buono– dignitoso.
Il caffè al bar costa solo 90 centesimi, nevrosi del barista compresa
In entrambi i casi la prima cosa che ho pensato è stata: vabbè. Capita così spesso che non ti facciano lo scontrino o che il caffè faccia schifo che ci ho quasi fatto il callo.
Poi invece ho avuto un singulto d’italico orgoglio: eh no, io non ci sto (come disse Oscar Luigi).
Al ristoratore ho chiesto la ricevuta, al barista ho chiesto se poteva rifarmelo, un po’ più corto, un po’ meglio, per cortesia.
Bisogna rassegnarsi mai:
— alla pausa pranzo mediocre;
— alla pasta scotta;
— al tramezzino della macchinetta;
— ai coloranti;
— al cappuccino con l’UHT.
Ribellarsi si deve, direbbe Yoda.
La vita è troppo breve per mangiare cose cattive.