Il premio Nobel per la letteratura 2024 lo ha vinto la scrittrice sudcoreana Han Kang, 53 anni. Il romanzo più noto di Han Kang, quello con cui è diventata famosa, si chiama La vegetariana. È un libro che parla di cibo? Non proprio, non solo. È un libro che tutte le persone interessate al cibo dovrebbero leggere? È un libro che tutte le persone dovrebbero leggere, innanzitutto, perché è molto bello. Ma quelle interessate al cibo, forse, a maggior ragione.
La protagonista della Vegetariana parte con il rifiutare la carne; poi inizia a non mangiare nessun prodotto di origine animale, passando quindi da vegetariana a vegana, in un percorso comune a molte persone. Infine compie il gesto estremo, e semplicemente smette di mangiare, iniziando a “nutrirsi” solo di acqua e luce. Una cosa che ben lungi dall’essere una pura scelta di regime alimentare – una dieta, per quanto folle possa essere, quella cosiddetta respiriana – la conduce lentamente ad assumere posture, atteggiamenti e comportamenti da vegetale, a trasformarsi in una pianta.
Di cosa parla La Vegetariana
Sarà chiaro a questo punto che La vegetariana (pubblicato da Adelphi per la traduzione di Milena Zemira Ciccimarra) è un romanzo puro, non il pamphlet di un attivismo animalista, non il manifesto di un ambientalismo woke. (E altrettanto chiaro dovrebbe essere che il premio dell’Accademia di Svezia non è un’indicazione dietologica o una manovra politica – anche se immagino già il nostro filosofo di riferimento, Diego Fusaro, parlare di “ortoressia turbocosmopolista” e “svirirlizzazione tecnomorfa del maschio fucsia liberal-atlantista”). Romanzo-romanzo che però, pur non potendo essere definito di stampo realistico, per ovvi motivi, non appartiene neanche al genere del fantasy, dove possono convivere allegramente uomini elfi ed Ent come nella Terra di mezzo; o del fantastico delle origini, stile Metamorfosi di Ovidio; neppure è un’allegoria classica, di quelle esplicite, un po’ giocose, o comunque talmente irreali da non turbare.
La vegetariana, e questo è il suo fascino, si muove in una zona ambigua: usa il cibo come uno strumento (forse); ma per cosa? Una delle particolarità – sottolineata dalla stessa Han Kang in un’intervista – è che la protagonista non si racconta mai in prima persona, non dice mai IO, è sempre vista attraverso gli occhi di un terzo (anzi più di uno): e questo a livello politico può sembrare una presa di posizione precisa, in difesa delle minoranze (donne, vegetariani) che non hanno mai il potere di affermarsi e descriversi, ma sono sempre narrate dagli altri. Ma sul piano stilistico ha l’effetto di far permanere il mistero: non avere la voce della protagonista, se non riportata indirettamente, e non avere un solo punto di vista, rafforza l’ambiguità. Sicché la vicenda può essere interpretata come la discesa di una mente frantumata nel delirio dell’anoressia, o come l’ascesa di una mistica verso un mutamento alchemico. Chi può dirlo?
En passant, sembra esserci un tratto comune nelle opere del Nobel Han Kang: la perdita, la sottrazione. Il romanzo L’ora di greco, ad esempio, è la storia di una donna muta e di un vecchio uomo che vede sempre meno: una ha perso la parola, l’altro ha perso la vista. Atti umani racconta un episodio ferocissimo nella storia recente della Corea del Sud: il massacro di migliaia di persone nel passaggio da una dittatura all’altra, e anche qui ci sono i cittadini che perdono la libertà, o la vita, e i militari che perdono la dignità, la ragione.
La protagonista della Vegetariana opera per sottrazioni progressive di generi alimentari, fino a escluderli tutti: perché, come dice la scrittrice nella stessa intervista, “a un certo punto si rende conto proprio di questo, e cioè che per sopravvivere bisogna esercitare violenza”. E lei rifiuta questa violenza nei confronti di qualsiasi essere vivente; rifiutando con questo prima la sua natura umana, e poi la stessa natura animale nella sua totalità.
Un esempio da seguire? Ovviamente no, per noi sani, per noi normali, noi che vogliamo mangiare e vivere, che consideriamo la morte un male irrimediabile. Prendo questa ultima riflessione – per quanto azzardata possa sembrare ha un senso, seguitemi – da un bel pezzo di Demetrio Paolin, che a un certo punto scrive:
Io guardo questo personaggio con occhi che “odorano” di carne, penso che lei voglia morire, ma Kang mi spiazza (…) Yeong-hye vuole diventare un albero, nei suoi movimenti: l’anoressia, il silenzio, l’estraneità al mondo rivedo la tensione presente in certe mistiche e sante anoressiche, capaci di non nutrirsi per mesi (…) Yeong-hye non ha paura di “diventare albero”, lo desidera fortemente, perché essa – infine – è libera da ogni cosa, come gli alberi, è libera dal vivere animale, ha rinunciato all’umano, e rinunciando all’umano si affranca dalla morte. Così, quando la sorella le urla: «Se faccio così, è perché ho paura che tu muoia», Yeong-hye risponde: «Perché, è così terribile morire?». Agli occhi dell’uomo la morte è un male irrimediabile, ma l’albero non muore, non sente la terribilità del morire, perché fa parte di un ciclo vegetativo, che prevede la rinascita. Una nuova sapienza è possibile per Yeong-hye perché attinge a qualcosa di incognito, precedente all’uomo, a un luogo in cui il ciclo della vita e della morte, il lutto, la perdita, la salvezza afferiscono a qualcosa di diverso: è la salvezza della materia, della fotosintesi clorofilliana, del ciclo delle stagioni, dell’omeostasi”.
Un esempio da non seguire, allora, ma un esempio da tenere presente: come possibilità, se pure da scartare. Per essere consapevoli, forse – e quindi sì, forse alla fine La vegetariana parla di cibo – che ogni volta che mangiamo facciamo una scelta precisa. Facciamola bene.