Ricordo distintamente il giorno in cui un’amica e collega calabrese ci parlò del festival organizzato da suo padre, fondatore e presidente dell’Accademia del Peperoncino. Era la prima metà degli anni zero, cronologicamente l’altroieri, gastronomicamente una vita. L’accostamento tra quel nome altisonante e quel frutto piccolino, familiare, di uso così quotidiano pur se da maneggiare con cura e rispetto, ci fece sganasciare dalle risate. Oltre al contrasto alto/basso, colpiva poi l’auto appropriazione dello stereotipo, Calabria = peperoncino. Profetici entrambi gli aspetti: vent’anni dopo, possiamo ammettere serenamente che avevano ragione loro, e noi torto.
L’episodio mi torna in mente quando, nel giro di pochi giorni, mi imbatto in due altre accademie. L’Accademia del panino italiano, una fondazione nata a Milano nel 2015, che re-incontro in un libro dal titolo promettente, Storia del panino italiano, scritto da Alberto Capatti per Slow food editore, ma dallo svolgimento rapsodico, e dall’italiano bizzarro (a proposito di italiano, il panino del libro e della fondazione è nostrano, pur se evidentemente la penisola non detiene l’esclusiva di mettere del cibo in mezzo al pane: pare che il discorso attorno al cibo debba essere per forza autarchico, nazionalista).
E la neonata Accademia itinerante del risotto al pesce persico. No aspe’, ripetiamo insieme: l’Accademia. Itinerante. Del risotto. Al pesce persico.
Pare che qualsiasi piatto o ingrediente abbia la sua accademia. Partiamo dal generico: c’è l’Accademia del gusto, l’Accademia italiana del gusto, l’Accademia internazionale del gusto, le accademie del gusto in varie declinazioni regionali o provinciali o locali. C’è l’Accademia del cibo, accademia del cibo foodlab e persino un’Accademia del cybo (con la ipsilon, oh yeah).
Ma quando è iniziato tutto questo? Probabilmente nel 1953, con l’Accademia italiana della cucina, associazione tuttora esistente. Fu creata da Orio Vergani, uno dei padri fondatori del giornalismo sportivo e grande appassionato di cibo (un binomio caratteristico, che nella generazione successiva genererà Gianni Brera, e in quella dopo ancora Gianni Mura). Vergani, en passant, nell’anteguerra era stato cronista al seguito dei Savoia e poi di Mussolini, e alla fine del conflitto aderirà alla Repubblica di Salò.
Entrando nello specifico, esistono ovviamente svariate accademie della pizza, innumerevoli accademie della pasta, naturalmente un’Accademia della bistecca alla fiorentina, e persino un’Accademia della polenta (in Val Tartano, una delle valli laterali della Valtellina). Non c’è un’accademia del sushi, né un’accademia del kebab, altrettanto ovviamente.
Non mancano, passando al lato cd. beverage, varie accademie del vino, un’Accademia della vite e del vino, più d’una Accademia della birra.
Alcune di queste accademie sono scuole di cucina o associazioni che organizzano corsi, perciò almeno in quel caso la reboante denominazione è giustificata dalle reali finalità educative o formative (anche se certi titoli andrebbero riconosciuti dagli altri e non auto-attribuiti, tipo quelle pizzerie che si mettono “gourmet” nel nome o nel sottotitolo). Alcune sono associazioni culturali – e che lo volete spiegare a noi che il cibo è cultura? – ma che danno sempre la sensazione di voler nascostamente promuovere qualcosa; insomma sarà che l’ambiente è ormai impestato ma io sento sempre puzza di marchetta. Alcune poi sono trattorie, pizzerie, ristoranti, pasticcerie: è il picco del nonsense, e forse per questo l’ambito di applicazione più giustificabile.
Ora io vorrei dire una cosa: ma ci rendiamo conto di quanto siete, di quanto siamo ridicoli? Mi sembra imbarazzante persino usare termini come provincialismo e complesso d’inferiorità. Ma d’altra parte: siamo in un’epoca in cui gli chef sono diventati maître à penser, idoli, guru. In un secolo siamo passati dalla legge Giolitti alla legge Massari.
Ed è un paradosso, ma se ci pensate un grande classico contemporaneo. Tutti vogliono il prestigio dell’accademia tranne gli accademici, che palesemente sanno quanto fa schifo, e sarebbero invece ben contenti di avere il successo di pubblico e critica di un cuoco, di un food influencer, di un tiktoker. Un po’ come la letteratura: tutti vorrebbero pubblicare un libro, tranne chi ci lavora davvero, in quella malebolge che è editoria.
Ma alla fine, è come dicevo all’inizio: hanno ragione loro, avete ragione voi. Chi scrive qui è solo un anziano che urla alle nuvole, come nel meme; un frustrato che non è riuscito a fare né l’accademico né lo chef. È tutto bellissimo, è tutto inutile, viva l’accademia, viva il mangiare, viva l’accademia del mangiare.