Un nuovo libro di pasticceria e scienza: ne sentivamo davvero il bisogno? A questa domanda ognuno risponderà come vuole, previa lettura in veglia naturalmente, del nuovo volume di Dario Bressanini “La scienza della pasticceria. La chimica del bigné. Le basi” uscito di recente per Gribaudo.
La mia non è avversione contro il ricercatore, divulgatore scientifico e sfornatore seriale di bestseller. Piuttosto, ogni volta che si ripete la tiritera del “uh, devi comprarlo: è il nuovo libro di scienza applicata alla cucina“, io mi ribello quasi inconsapevolmente.
Credo fermamente che ogni volta che qualcuno scrive un libro di scienza e cucina, uno chef poeta senza bilancia muore. E non parlo di stellati o professionisti.
Mi spiego meglio: conoscere per filo e per segno i processi chimici che stanno dietro alla pasticceria può aiutare nella vita, soprattutto quando ti cimenti in diabolici budini fatti in casa soppesando a spanne e ti rendi conto che l’approssimazione non è amica del budino. E, con ogni probabilità, se ne rendono conto anche gli altri commensali.
Per questo, cosciente dell’indole pressapochista da q.b., ho smesso di combattere la mia natura rinunciando a fare dolci, perché tanto di speranza non ce n’è. Questa cosa della scienza in cucina non ha mai fatto per me, e quindi:
1) mi annoia mortalmente
2) mi pone in antagonismo primordiale con quelli che stanno 6 mesi a perfezionare una cheesecake.
Capiamoci: Bressanini fa il suo cercando di tirar su un popolo sempre più consapevole di come si monti la panna, ma tutto questo è un po’ deviato, come i plastici di Cogne da Emilio Fede. Se c’è una cosa bella della cucina, oltre a mangiare, è quella di creare mescolando, aggiustando un po’ per volta, improvvisando e testando in diretta.
E’ questo che manca ai chirurghi da dessert: la libertà.
Insomma, ognuno è nato come è nato, inutile combattere: ci sono quelli che hanno studiato ingegneria e che da bambini giocavano al meccano. Poi ci sono quelli che tagliavano i capelli alla Barbie, la facevano litigare con Ken introducendo elementi di entropia come la Barbie di colore, e ad oggi puoi scommettere che questi non sanno fare una crostata.
A quest’ultima tipologia umana l’ennesima presa di coscienza scientifica sul bignè non serve ad altro che ad aumentare una sorta di sprezzo verso il perfettino di turno: il pasticcere casalingo che ti guarda come un essere superiore quando racconti che hai buttato la terza crostata. Sì, lui: quello che mostra orgoglioso le sue torte sui social, facendosi beffe di chi ha uno stile di vita q.b. come il mio.
Continuerò a comprare la pasta sfoglia al supermercato, ignorandone i processi dietrologici e le unità di misura, e a farci il mio dessert più riuscito: Strudelino di sole mele, cotto girando a più di metà la manopola del forno e per il tempo di scendere a far fare pipì al cane.
Questa, per me, è poesia.
A leggere il libro di Bressanini si diventerà certo più bravi e coscienti, e forse non butterete nell’umido i budini blob mal riusciti.
Io sto nel mio a crogiolarmi nel pensiero che chi ha creato la banana split abbia fatto tutto di getto, così, come veniva, magari in preda a qualche allucinogeno e comunque senza nozioni di chimica.
NOTA: comunque resta il fatto che apprezzo i dolci fatti con la bilancia elettronica settata su Greenwich del mio vicino di casa, l’uomo più diverso da me, quello che fa cheesecake memorabili, ma che compra tutti i libri di scienza applicata alla cucina.