La sardo modicana, altrimenti detta bue rosso, è una razza bovina nata da un incrocio ottocentesco tra animali sardi e siciliani. Il risultato è stato un ceppo maculato, dal manto rosso ramato e dalla muscolatura asciutta che viene cresciuta al pascolo nel Montiferru, regione montuosa nella Sardegna occidentale che prende gran parte della provincia di Oristano.
Le caratteristiche del Montiferru hanno plasmato la razza come e più della genetica: si tratta infatti di un terreno lavico di altura (tra i 700 e i 1000 metri), che prende il nome dall’antico vulcano Monsiferru. La vegetazione è quella mediterranea, brulla, ed è una terra adibita quasi esclusivamente a pascolo, dato che le colture sono particolarmente difficili, a parte quella dell’olio di oliva. La sardo modicana vive qui, allo stato semibrado, e i capi di bestiame mantengono carni magre e una muscolatura soda, che, detto così, può sembrare un bene, ma non lo è quando il capo viene macellato: carni così magre risultano parecchio dure in cottura, soprattutto nelle cotture veloci e ad alte temperature “contemporanee” (aka la brace).
La carne di sardo modicana, così come il Casizolu, il formaggio che si produce dal latte di questi bovini, sono PAT, Prodotti Agroalimentari Tradizionali alla base dell’edizione di quest’anno di Isole del gusto.
Il Casizolu, uno strano formaggio nella produzione casearia sarda
Non è un caso che per molti anni la sardo modicana è stata usata soprattutto per il suo latte, con cui si produce il Casizolu, un formaggio a pasta filata che viene modellato a forma a pera, con una crosta liscia e sottile di colore giallo paglierino che diventa più scura con la stagionatura, in genere un paio di semestri. Rispetto al pecorino sardo, ha una produzione più impegnativa, che tradizionalmente veniva lasciata alle donne: deve essere cagliato appena munto, lavorato a lungo per ottenere la pasta filata, e poi ben tirato per dargli una crosta non rugosa e una forma tonda da caciocavallo, e infine adagiato per tre giorni in un cesto di crusca e girato spesso, per mantenere la forma intatta. Solo in questo momento lo si appende per la stagionatura.
La produzione di carne della sardo modicana: una grigliata futuribile
Da qualche tempo nelle macellerie più attente di Sardegna si vende la sardo modicana tra le carni di eccellenza italiane. Ma cosa sta frenando il fatto che la sardo modicana diventi la nuova Fassona, o la nuova Chianina o la nuova Podolica? Il problema principale è che questa è una carne che per molti anni è stata usata come carne da arrosti e stracotti, lunghe cotture in umido tipiche della cucina casalinga sarda.
Esiste una rete di macellerie che si sta impegnando per la promozione di questa carne, come quella di Pierluigi Fais, uno degli esponenti del new deal macellaio della frollatura e delle razze iperlocali, che ha il suo negozio gastrofighetto a Cagliari. Una delle soluzioni per ovviare alla durezza della carne è il cosiddetto finissage, ovvero il mantenimento dei capi in stalla per un periodo più o meno lungo prima della macellazione: la stanzialità, unita ad un alimentazione ricca anche di cereali, fa ingrassare l’animale e ammorbidire le sue carni. Infine, ovviamente, molti macellai stanno lavorando sulla frollatura, più o meno spinta. Miscelando adeguatamente queste tecniche si può mangiare la sardo modicana cruda, o farne una costata alla griglia.
Il presidio Slow Food conferito alla razza ha stabilito alcune regole per la conservazione e la sostenibilità della razza che prevedono che i vitelli siano nutriti dal latte materno e che la produzione di latte segua la stagionalità, senza forzare la lattazione delle femmine. Per tutta la vita il bestiame si nutre esclusivamente di erbe dei pascoli del Montiferru, senza venire mai in contatto con altre razze bovine; ed è previsto anche un periodo di due mesi in stalla prima della macellazione, in cui è vietato nutrire il bestiame con OGM e insilati.
Croce e delizia di questo allevamento resta comunque il fatto che si tratta di piccoli e piccolissimi allevatori, a volte con al massimo cinque capi, che svolgono l’attività di pastorizia perché tramandata dalla famiglia, ma il loro lavoro principale è altro. In uno stato altamente bucolico, e necessariamente amatoriale, la formazione di specialisti nel finissage e l’acquisto di stalle e di mangimi adeguati diventa un problema di tempo e di budget. Molti allevatori però, anche piccolissimi, stanno lavorando a un sistema di etichettatura volontaria dei capi, anche in accordo con macellerie fededegne come quella di Fais.
Vaghiamo – come quasi sempre per il cibo di qualità – nell’annosa alternanza tra artigianalità e tradizione da una parte, e un’industrializzazione ragionata, che permetta di stare sul mercato, che porti benessere ma che inevitabilmente faccia avvizzire un poco il passato, dall’altra. Ai posteri l’ardua sentenza.