Un trattino la dice lunga, e nel caso dell’Emilia-Romagna unisce e divide allo stesso tempo. Nonostante la contiguità geografica e le somiglianze linguistiche e culturali, le differenze tra le due regioni storiche, seppur sfumate, si fanno sentire. A partire da cosa bolle in pentola: oggi ci concentriamo sulla cucina emiliana, culla della pasta all’uovo e ripiena, di brodi, salumi, stracotti e dolci speziati. Un patrimonio di piatti tipici (e prodotti a marchio garantito) tra cui si annoverano tigella, erbazzone, tagliatelle, tortellini, pampapato, maltagliati e molto altro ancora.
Prima però chiariamo qualche punto, a partire da cosa è l’Emilia: comprende le province di Piacenza, Parma, Reggio Emilia, Modena, Ferrara e Bologna, mentre tutto il resto ad est del fiume Sillaro è Romagna, compresi i sabbiosi litorali adriatici da cartolina. Il secondo punto riguarda le sfumature della tipicità, spesso dibattuta, incerta o intrecciata con la sorella Romagna: così anche stavolta (come già per la cucina di Bologna) ci appelleremo al nostro arbitro preferito Pellegrino Artusi, più qualche altra voce autorevole della gastronomia dei tempi che furono.
Vi aspetta una scorpacciata di quelle importanti e impegnative: ecco quali sono i 20 piatti tipici emiliani da provare.
Tagliere emiliano
L’Italia è un paese di stereotipi, specialmente agli occhi stranieri. Per il vino c’è la Toscana (con buona pace del Piemonte), la Sicilia regna sovrana sul comparto dolci, Napoli è pizza e via dicendo. In questa mappa mangereccia l’Emilia si distingue per l’abbondanza di salumi e formaggi che tutti, ma proprio tutti, conoscono e spesso cercano di imitare. Senza riuscirci ovviamente, perché a parte frodi e contraffazioni la magia sembra compiersi solo qui, sorry not sorry. Non è nostra abitudine fare liste di prodotti singoli, lo sapete, vi raccontiamo piatti che vedono una combinazione di ingredienti: stavolta però è doverosa un’eccezione, perché parlare di Emilia senza nominare le sue eccellenze non s’ha da fare.
Ecco allora il nostro ipotetico “tagliere emiliano” con degustazione dei prodotti più noti e blasonati che non possono mancare in un charcuterie board degno di Pinterest. Dal re dei formaggi Parmigiano Reggiano Dop servito, perché no, con qualche goccia di Aceto Balsamico Tradizionale di Modena Dop che nulla ha a che vedere con le ampolle caramellate in vendita al supermarket. Ad accompagnare i salumi ci pensa la Coppia Ferrarese Igp, dal 1536 il “pane ritorto” degli Estensi. Ed eccole qua le superstar della norcineria italiana: direttamente dalla coscia del maiale Culatello di Zibello Dop, Prosciutto di Parma Dop, Prosciutto di Modena Dop; per gentile concessione del collo, la Coppa Piacentina Dop; infine gli insaccati, Salame Felino Igp e Salame Piacentino Dop. Un calice di Lambrusco metodo ancestrale a pulire la bocca, e via verso il paradiso dei gastronomi.
Tigella
Chi cerca lo snack della vita lo troverà sicuramente a Modena. La città delle eccellenze, da Pavarotti a Massimo Bottura, ne sforna quotidianamente e tutte da leccarsi i baffi. Partiamo dalle tigelle, anche dette crescentine montanare o, più precisamente, “crescentine cotte fra due tigelle”. Eh sì perché la tigella, che deriva da tegella, diminutivo del latino tegula ovvero “coperchio”, sta a indicare i dischi di terracotta utilizzati per cuocere l’impasto. Con il tempo ha prevalso la metonimia, e il contenitore si è sostituito all’alimento vero e proprio.
Manteniamo il distinguo e cerchiamo di analizzare tutti gli elementi: la tigella che si mangia (ovvero la crescentina, da non confondere con quella bolognese) è una semplice focaccina a base di farina, acqua, strutto e lievito. Questa viene cotta nella tigella-stampo, un attrezzo di sette-otto dischetti da 15 cm di diametro decorati con motivi geometrici. Un tempo, per separare l’impasto dalla terracotta, venivano utilizzate foglie di castagno o noce, oggi prevalgono i materiali antiaderenti ma la sostanza è la stessa. La tigella è democratica e si farcisce con qualsiasi cosa, ma la tradizione vuole la cunza o pesto modenese a base di lardo, aglio e rosmarino.
Gnocco fritto
L’altro snack irrinunciabile è il famosissimo gnocco fritto modenese o gnoc frèt in dialetto, la sfoglia gonfia e croccante a forma di rombo o rettangolo da gustare con salumi e formaggi all’ora dell’aperitivo. Si prepara soltanto con farina, acqua, sale e strutto, quest’ultimo possibilmente utilizzato anche come veicolo di frittura. Lo gnocco è caratterizzato dall’assenza di lievito: al suo posto l’ingrediente segreto è l’acqua frizzante, le cui bollicine sono in grado di gonfiare l’impasto al momento della cottura. C’è da dire però che lo gnocco fritto non è esclusivo di Modena e le varianti regionali sono moltissime: l’iconica bolognese, anche se impropriamente chiamata crescentina; chizza reggiana, pasta friabile ripiegata a tortello e farcita con Parmigiano Reggiano; torta fritta parmense; chisulèin piacentino; pinzino ferrarese.
Borlengo
Chiudiamo la triade degli snack modenesi con il borlengo, crespella salata caratterizzata da cialda sottile e croccante. L’impasto, detto colla, è realizzato soltanto con farina, acqua e sale e si cuoce un pezzo alla volta sulla padella di rame stagnato larga e rotonda, simile al sol dell’erbazzone. Qualche nota etimologica/folkloristica sul borlengo: burláng deriverebbe da “burla” e il richiamo è ovviamente al Carnevale. Se è vero che ogni scherzo vale, allora prendiamo per buona la leggenda della ricetta riuscita per caso, anzi per burla: c’era una volta una massaia e il suo impasto pronto per le tigelle, cui qualcuno pensò bene di aggiungere molta acqua. Da questa colla liquida troppo allungata uscì il borlengo e il resto è storia, anzi mito.
Altre versioni regionali sono il ciacio del Fregnano, cotto su piastre di ferro dette cottole; e le zampanelle dell’Appennino modenese, più larghe e più sottili tradizionalmente preparate nelle ruole poste all’interno del forno a legna. Anche per il borlengo il topping più gettonato è il pesto montanaro, poi naturalmente valgono tutti i tipi di condimenti dolci e salati. Per le zampanelle invece si preferisce la salsiccia fresca, e già che ci siamo un bel fiasco di Lambrusco.
Erbazzone
L’erbazzone o scarpazzòun tipico di Reggio Emilia è una golosa torta salata ripiena di bieta, uova e formaggio. Della doppia nomenclatura, in italiano e in dialetto, è responsabile proprio il ripieno: in origine erano le erbette di campo (tarassaco, borragine, ortiche & co) da cui erbazzone; mentre la “scarpa” dello scarpazzòun deriva dal gambo della bieta, di cui veniva utilizzata anche la parte bianca. Altri ingredienti tipici della farcia sono cipollotti, lardo o pancetta, prezzemolo, Parmigiano Reggiano e ricotta, mentre la pasta fuiada consiste in un semplice impasto a base di farina e strutto. Per la cottura in forno si utilizza lo stampo tradizionale sol, una sorta di treppiede rotondo in rame con il manico per poterlo girare.
Sull’Appennino reggiano esiste una versione alternativa del piatto: l’erbazzone montanaro, tipico di Felina e Carpineti e caratterizzato dall’aggiunta di riso nel ripieno. In queste zone, dai primi del Novecento agli anni Sessanta, la forza lavoro trainante erano le mondine chiamate a scendere a valle per disinfestare le risaie dalle erbacce e dedicarsi al raccolto. Parte della paga giornaliera consisteva in un chilo di riso: così, in assenza di una forte tradizione di risotti, le donne pensarono bene di includere questo nuovo ingrediente nella ricetta dell’erbazzone casalingo rendendolo, a tutti gli effetti, un nutriente piatto unico.
Tortellini
Come introdurre i tortellini in brodo emiliani, probabilmente il primo piatto più rappresentativo della regione? Fra storia, leggenda e poesia, l’immaginario del tortellino è ricco di spunti suggestivi. Partiamo dai fatti: lo storico dell’alimentazione Massimo Montanari ci spiega che tortello deriva da torta intesa come ripieno avvolto da un involucro di pasta (dal Morgante di Luigi Pulci: “Io credo nella torta e nel tortello: l’una è la madre e l’altro il suo figliuolo”). Dal Medioevo in poi il tortello compare nei ricettari di tutti quelli che contano, da Maestro Martino (1518) a Cristoforo Messisbugo (1549), Bartolomeo Scappi (1570) e Bartolomeo Stefani (1662).
Poi c’è la questione dell’origine, contesa fra turtlén bolognese e turtlèin modenese. Secondo la Dotta Confraternita del Tortellino, questa fu risolta in maniera molto diplomatica collocandola nel punto equidistante fra le due città: Castelfranco Emilia. Il paciere fu Giuseppe Ceri, che in un poemetto ottocentesco (parodia del poema già eroicomico La Secchia Rapita del Tassoni) chiarisce anche la faccenda della forma a ombelico del tortellino. Questo apparterrebbe niente meno che alla dea Venere, giunta fra noi insieme a Marte e Bacco per aiutare Modena in una guerra contro Bologna. Le tre divinità soggiornano in una locanda proprio a Castelfranco: solo che, mentre i maschi sono fuori, Venere rimane a letto addormentata. Quando si sveglia, nuda e preoccupata per l’assenza dei suoi compagni, chiama aiuto: “E l’oste, ch’era guercio e bolognese, / imitando di Venere il bellico / e con capponi e starne e quel buon vino / l’arte di fare il tortellino apprese”. Altre origini mitiche del tortellino ombelicato: Elena di Troia secondo Vittorio Leonesi (“gemello egli era a picciol tortello”), tale signora Levreina secondo Ostilio Lucarini (“quéll ch’ha inventà i turtlein”), e chissà quante altre femme fatale tra storia e leggenda.
Ad oggi l’unica certezza è nel piatto. Il tortellino emiliano ha dimensioni ridottissime, quasi un’unghia: la base è un quadrato di sfoglia fresca all’uovo sottilissima, appena 3 cm per lato e peso finale di circa 5 grammi. Il ripieno, secondo ricetta depositata, è a base di lombo di maiale, prosciutto crudo, mortadella di Bologna, Parmigiano Reggiano, uova e noce moscata. Nonostante le derive industriali che vorrebbero farci credere il contrario, il tortellino si mangia in brodo, preparato con doppione di manzo, gallina ruspante, sedano, carota e cipolla.
Anolini
Anche in questo caso il nome completo è anolini in brodo, pasta all’uovo ripiena di forma circolare o semicircolare costituita da due strati di sfoglia a bordi seghettati. E sempre a proposito di nomi: il termine deriverebbe dal latino anulus, ovvero anello, ulteriormente sfumato nei dialetti di Parma e Piacenza (che ovviamente si contendono la ricetta) in anolén e anvëin. Di certo abbiamo la prima codifica del piatto, riportato da Bartolomeo Scappi nella sua Opera dell’arte del cucinare del 1570. Gli anolini compaiono puntualmente sulle mense dei potenti, chiaramente quelli del Ducato di Parma e Piacenza: li gusta Ranuccio II Farnese (1659), Don Ferdinando I di Borbone (1793) e Maria Luigia Duchessa di Parma e Piacenza (1791-1847) tanto che ai suoi tempi il detto recitava: “Solo al re Anolino la Duchessa porge il suo inchino”.
Nelle due città, oltre che nel nome, gli anolini differiscono per forma e dimensione (rotonda e più grande a Parma, mezzaluna e più piccola a Piacenza) e nel tipo di formaggio usato per il ripieno (Grana Padano nel piacentino, Parmigiano Reggiano nel parmense). L’unica costante sembra essere la carne: stracotto di manzo per il ripieno e cappone per il brodo. Per chiudere, una citazione dalla ricetta #54 dell’Artusi “Anolini alla parmigiana” inviatagli da una signora milanese originaria di Parma: “Mi dichiaro obbligato alla prefata signora perché avendo messo in prova la detta minestra è riuscita di tale mia soddisfazione da poter rendermi grato al pubblico e all’inclita guarnigione”.
Cappellacci
Concludiamo la triade delle paste ripiene più rappresentative dell’Emilia, almeno per tradizione storica, con i Cappellacci di Zucca Ferraresi Igp. Chiamati più semplicemente caplaz in dialetto, la loro prima attestazione risale al trattato Dello Scalco (1584) del cuoco estense Giovan Battista Rossetti . La ricetta era indicata come tortelli di zucca con il butirro, quasi tale e quale a quella odierna se non fosse per l’abbondanza di spezie quali zenzero e pepe. Da sempre sono contraddistinti dalla forma, che ricorda il cappello di paglia (un cappellaccio, appunto) anticamente in uso tra i contadini della zona. La dimensione varia tra i 4 e i 7 cm, il peso tra i 10 e 28 grammi. La sfoglia all’uovo racchiude un ripieno di zucca violina (per saperne di più consultate la nostra guida alle varietà di zucca), formaggio, pangrattato e noce moscata. A differenza di anolini e tortellini, i cappellacci non chiamano brodo ma sugo: i condimenti classici sono ragù di carne oppure burro e salvia.
Altre paste ripiene regionali che hanno la zucca come protagonista sono i tortelli di zucca reggiani, per certi versi assimilabili ai più noti mantovani; e il tortél dóls di Colorno, con tanto di Confraternita dedicata e ricetta depositata a base di pere nobili, “cocomero bianco” da mostarda e mele cotogne. Per la categoria “tortelli di magro” invece, ricordiamo i tortelli alla piacentina “con la coda” dalla caratteristica forma allungata a caramella e ripieno di ricotta e spinaci; e i tortelli verdi reggiani a forma rettangolare e ripieno di erbette.
Tagliatelle
Abbiamo sempre detto che il nostro salvagente delle incertezze culinarie è Pellegrino Artusi, ma stavolta dobbiamo dissentire: la sua ricetta #71 delle “Tagliatelle all’uso di Romagna” proprio non ci vede d’accordo con la sua attribuzione geografica. Anche egli stesso d’altronde sembra contraddirsi, visto l’esordio tutto emiliano: “Conti corti e tagliatelle lunghe, dicono i Bolognesi, e dicono bene, perché i conti lunghi spaventano i poveri mariti e le tagliatelle corte attestano l’imperizia di chi le fece e, servite in tal modo, sembrano un avanzo di cucina”.
Dunque le tagliatelle, che in pratica non sono altro che sfoglia emiliana tagliata in lunghe striscioline. Gli ingredienti sono due soltanto, uova e farina. A onor del vero, occorrono almeno altri tre elementi fondamentali: il matterello, la spianatoia e l’insostituibile sfoglina, la figura (di solito femminile) che con mano esperta “tira” la sfoglia come nessun altro. Dal 16 aprile 1972 il “campione” di larghezza della tagliatella è conservato alla Camera di Commercio di Bologna come fosse un tesoro, ovvero racchiuso in uno scrigno e riprodotto in oro. Il campione misura 8 millimetri, corrispondenti alla 12270ª parte dell’altezza della Torre degli Asinelli a Bologna. Ultima nota sui condimenti: il più classico è certamente il ragù alla bolognese. Altre ricette tipiche, secondo l’Accademia Italiana della Cucina, sono al prosciutto, con aglio e noci, con piselli e pancetta, in pasticcio. Del resto, con tagliatelle fresche e fatte a mano va bene anche soltanto un pezzo di burro, e si vola.
Maltagliati
Dagli avanzi di tagliatelle nascono i maltagliati, i quadretti di pasta all’uovo (ma anche rettangoli, rombi, fantasiosi ghirigori) ricavati dalla sfoglia in eccesso, di solito i bordi. Della serie, non si butta via niente: i maltagliati nasceranno pure male ma il riscatto è subito dietro l’angolo, anzi sul fondo di una bella scodella di brodo insieme a verdure e legumi. La ricetta tipica da provare è la minestra di fagioli e maltagliati o malmaritati alla bolognese: un piatto unico semplicissimo e nutriente con borlotti, passata di pomodoro, aglio, prezzemolo e parmigiano reggiano.
Pisarei e fasö
Nel piacentino la pasta e fagioli si fa con… gli gnocchi! Pisarei e fasò indica infatti un primo (volendo un piatto unico) a base di gnocchetti di farina e pangrattato con sugo rosso di fagioli, pomodoro, lardo e cipolla. Tolti pomodoro e fagioli borlotti che non entrano in cucina almeno fino al Settecento, il resto del piatto è piuttosto antico. Base dell’alimentazione povera, si rivela insieme nutriente (cereali + legumi è la combo proteica vegetariana per eccellenza) ed economico (farina avanzata per gli gnocchi e ritagli meno nobili post macellazione del maiale per il condimento). Se il significato di fasö o fasò è abbastanza intuitivo, sull’origine di pisarei c’è qualche dubbio. Due le ipotesi più accreditate: da bissa (biscia), ossia la striscia di pasta arrotolata da cui si tagliano gli gnocchetti; oppure da pisar, schiacciare, proprio come il gesto che si pratica con il pollice per dare forma agli gnocchetti con caratteristico solco nel mezzo.
Anguilla
L’Emilia, pur con un respiro di mare sulla costa adriatica, non ha una grande tradizione di pesce d’acqua salata. La specialità con le branchie da provare si deve ricercare piuttosto nel delta del Po, in particolare al confine tra Emilia e Romagna. Comacchio, in provincia di Ferrara, è l’epicentro dell’anguilla con una tradizione secolare di allevamento e lavorazione regolamentata fin dal 1818. A testimonianza del glorioso passato abbiamo almeno tre elementi: il Museo dell’Anguilla all’interno della Manifattura dei Marinati, una vera e propria fabbrica per la marinatura tradizionale; un sistema consolidato di sbarramenti e griglie mobili per la pesca detto lavoriero; e un ampio ricettario con quarantotto differenti preparazioni tra cui spicca il risotto all’anguilla.
Anche l’Artusi ci spiattella parecchi metodi per cucinarla: tuttavia, la prima “ricetta” #490 è più un trattato generale sull’anguilla, con cenni su pesca, etologia e tassonomia. Dunque si passa ai metodi, arrosto, in umido, col vino, coi piselli fino alla #495 “Anguilla in umido all’uso di Comacchio” curiosamente senza aggiunta di olio visto che “codesto pesce contiene tanto olio in sé stesso che l’aggiungerne guasta anziché giovare”. Oggi l’Anguilla marinata delle Valli di Comacchio è anche un Presidio Slow Food: dopo la cottura allo spiedo, i tranci di anguilla (morelli) sono posti in salamoia all’interno di recipienti di legno detti zangolini. Il liquido di immersione, detto amalgama, consiste in una soluzione di aceto bianco, sale marino di Cervia, alloro e una piccola parte di acqua. Inscatolata nella latta gialla e rossa, l’anguilla in conserva si rivede all’ora dell’aperitivo insieme a crostini, bollicine e buona compagnia.
Stracotto piacentino
La sezione “Umidi” dell’Artusi, ove le prime due ricette riguardano proprio gli stracotti, esordisce così: “Gli umidi, generalmente, sono i piatti che più appetiscono; quindi è bene darsi per essi una cura speciale, onde riescano delicati, di buon gusto e di facile digestione. Sono in mala voce di esser nocivi alla salute; ma io non lo credo. Questa cattiva opinione deriva più che altro da non saperli ben fare; non si pensa, cioè, a digrassarli, si è troppo generosi cogli aromi e coi soffritti e, ciò che è il peggio, se ne abusa”. Insomma, i piatti in umido o li fai bene o non li fai proprio, e come non essere d’accordo.
I piacentini si sono specializzati con la loro personale versione di stracotto, carne di manzo (tagli muscolari, in genere scamone, pernice, ganassino o massetere) in vino rosso e sugo di pomodoro. Come insegna Artusi, il segreto è la pazienza e la saggia distribuzione degli ingredienti: soffritto leggero, cottura a fuoco basso per almeno 5 ore, mazzetto di erbe odorose e giusto un cucchiaio di pistà ad grass (battuto di lardo e prezzemolo) per insaporire. ‘l stua di una volta si cuoceva in forno a legna all’interno di un recipiente di terracotta chiamato stuvon, fondo piatto e coperchio concavo in modo da far evaporare lentamente il vino e le spezie. Lo stracotto è un classico con la polenta, su questo non c’è dubbio, tuttavia ricordiamo che fa da base per tanti altri piatti: ripieno degli anolini, condimento di tagliatelle, maltagliati e maccheroni alla bobbiese.
Salumi cotti
Emilia terra di salumi cotti, entusiasticamente consumati tutto l’anno e non soltanto la sera del Veglione. C’è la mitica Salama da sugo Igp, tipica della zona di Ferrara e forse la più “aristocratica” fra gli insaccati: a quanto pare faceva furore già alla corte degli Estensi, e nel 1722 si guadagnò anche una dedica in versi da parte del poeta Antonio Frizzi, che ne La Salameide ne raccontava in chiave fantastica e giocosa le nobili origini. Poi il Cotechino Modena Igp, presumibilmente nato a Mirandola nel 1511 per mere ragioni di sopravvivenza: gli abitanti assediati dall’esercito papale dovevano trovare un modo per conservare il più a lungo possibile la carne di maiale. Stessa origine leggendaria per lo Zampone Modena Igp, che però viene avvolto nell’involucro costituito dalla zampa anteriore del suino, da cui il nome.
Per la serie le citazioni famose, stavolta tocca a Mario Soldati che nella sua fortunata trasmissione del 1957 Viaggio nella Valle del Po racconta usi, costumi e soprattutto ricette del territorio, sempre con un pizzico di ironia. Della salama da sugo, assaggiata al ristorante Tassi di Bondeno, Soldati ci indica la composizione (carne di maiale impastata con vino, spezie e cognac e insaccata nella vescica), tempi di lavorazione (da 6-7 mesi a un anno), cottura (a bagnomaria!) e abbinamenti più o meno leciti: d’estate con meloni e fichi, d’inverno con purè e banane (???). Del “Coteghino fasciato” invece ci parla l’Artusi alla ricetta #322: “Non ve lo do per piatto fine, ma come piatto di famiglia può benissimo andare, anzi potrete anche imbandirlo agli amici di confidenza. A proposito di questi, il Giusti dice che coloro i quali sono in grado di poterlo fare, devono di quando in quando invitarli a ungersi i baffi alla loro tavola. Ed io sono dello stesso parere, anche nel supposto che gli invitati vadano poi a lavarsi la bocca di voi, come è probabile, sul trattamento avuto”. Caustico come sempre, e a noi piace così, possibilmente con un contorno di purè e lenticchie.
Faraona arrosto
L’arrosto della domenica versione emiliana propone, al posto del canonico pollo, una bella faraona, esemplare che potremmo definire il cugino bello del tacchino. Piumaggio a pois bianchi su sfondo grigio perfettamente distribuiti, collo lungo e variopinto (si va da rosato a lilla, beige e il bellissimo azzurro intenso di alcuni esemplari), becco rosso con punta gialla, e il caratteristico “pennacchio” sulla testa che ricorda una mitra episcopale, da cui l’appellativo “faraona mitrata”. Anche l’Artusi, alla ricetta #546 “Gallina di faraone”, ha da dire la sua su questo elegante pennuto. In proposito ci racconta una leggenda : “Questo gallinaceo originario della Numidia, quindi erroneamente chiamato gallina d’India, era presso gli antichi simbolo dell’amor fraterno. Meleagro, re di Calidone, essendo venuto a morte, le sorelle lo piansero tanto che furono da Diana trasformate in galline di Faraone”. Leggenda o no, sta di fatto che il nome scientifico della faraona è proprio Numida meleagris, quindi chissà che in questa storia non ci sia un fondo di verità.
Torniamo ai fornelli. Arrosto e/o ripiena, la faraona è un secondo tipico della cucina piacentina. Uno dei metodi tradizionali di cottura è la cosiddetta faraona alla creta: dopo averla marinata per bene con aglio, burro, rosmarino e spezie, viene avvolta in carta oleata e ricoperta da uno strato di argilla morbida. L’involucro, che ovviamente viene rotto dopo la cottura in forno, serve a mantenere l’umidità interna della carne altrimenti tendente allo stopposo, e a renderla succulenta facendola cuocere direttamente nel suo grasso.
Torta tenerina
C’era una volta la regina Elena di Montenegro, moglie di Vittorio Emanuele III, che oltre ad aver portato una ventata di freschezza alla vetusta casa Savoia, è stata l’ispirazione per la torta tenerina. Questa morbida torta al cioccolato tipica di Ferrara fu ideata nell’anno 1900 proprio in onore della delicata sovrana, da cui torta montenegrina o regina del Montenegro. L’impasto di cioccolato, uova, burro e zucchero (più qualche cucchiaio di farina, eventualmente sostituibile da cacao amaro per una variante senza glutine e dal gusto più intenso) risulta talmente umido e pastoso che si scioglie letteralmente in bocca. Altro che cuore morbido o sdolcinerie simili: il nickname ferrarese schietto e sincero è taclenta o tacolenta, in dialetto “appiccicosa” per la consistenza interna del dolce. Da non mangiare con le mani insomma, peraltro una torta da regina richiede un bon ton all’altezza: forchettina (possibilmente d’argento), tazza di tè e mignolino all’insù.
Torta di tagliatelle
Anche detta torta di tagliatelline, di tagliolini o torta ricciolina (ricette #578 e #579 dell’Artusi), la torta di tagliatelle è un dolce a strati antico e piuttosto laborioso. La superficie dà il nome al piatto: fili sottili di sfoglia dorata che, secondo la leggenda, riproducono i capelli biondi della fatalona Lucrezia Borgia. La torta infatti avrebbe origine nella Ferrara rinascimentale, epoca in cui la nobildonna figlia illegittima di papa Alessandro VI (che tempi) andò in sposa ad Alfonso I d’Este Duca di Ferrara, Mantova e Reggio Emilia. La sfoglia è esattamente quella della pasta fresca tuttavia, a differenza delle tagliatelle vere e proprie, è tagliata in formato molto più sottile. Al di sotto dei capei d’oro a torta sparsi, un ricco ripieno di mandorle, canditi e liquore all’anice e una base di pasta frolla. Altre versioni ricalcano gli antichi ducati sotto il controllo estense: così a Mantova spesso troviamo più strati di sfoglia, a Modena cacao e liquore Sassolino, a Bologna niente canditi.
Spongata
La torta “diplomatica” per eccellenza è la spongata, base di pasta brisée farcita di miele, frutta secca, canditi e spezie. Tipica di Piacenza, Reggio Emilia, Parma e Busseto – peraltro luogo di nascita di Giuseppe Verdi – la spongata prende il nome dal latino spongia, “spugna” per la superficie bucherellata e irregolare. Torniamo alla diplomazia: questo dolce antico ha una storia interessante che lo vede quasi sempre in funzione di dono, spesso con interessi annessi. Ad esempio, il Codice diplomatico del monastero di Bobbio del 1194 dà indicazioni sull’impiego di un dolce simile come regalo per ospiti e affittuari, una specie di bonus per il periodo natalizio (dando illi qui fictum portaverit unam spongatam). La prima vera attestazione risale al 1454, in una lettera di accompagnamento ad alcuni doni inviati a Francesco Sforza Duca di Milano. Ancora, dal registro delle Masserie Estensi si evince che Eleonora d’Este usava inviare spongate come doni ai signori di Ferrara. Che sia per fissare alleanze o risolvere un regalo di Natale, in Emilia con la spongata si va sul sicuro.
Bensone
Il bensone o belsòn modenese è un pane dolce di forma ovale farcito con marmellata o mostarda. La ricetta risale al XIII secolo e alle ricorrenze legate a Sant’Eligio, protettore di orafi e fabbri: in occasione della festa patronale, che cadeva il 1 dicembre, era uso offrire il bensone alle corporazioni artigiane. Con il suo semplice impasto di farina, burro, latte e miele, il bensone è simile alla brazadèla o ciambella ferrarese con cui peraltro condivide la radice etimologica. A questo proposito esistono almeno due teorie, entrambe dal francese: la prima riconduce al pain de son, il pane di crusca che allora era la materia prima alla portata di tutti; la seconda al pain de bendson, “pane di benedizione” dall’usanza di far benedire il pane della mensa in occasione del Sabato Santo.
Pampapato
Pan di spezie: un concetto tanto semplice quanto vincente, non solo in Italia ma anche in svariate culture europee. Lo sapevano bene le suore del monastero di clausura del Corpus Domini di Ferrara, che con i nuovi ingredienti disponibili dal Seicento in poi quali zucchero di canna, cacao e spezie esotiche (se si avevano i soldi per acquistarli chiaramente) crearono un pampepato talmente prestigioso da diventare in breve pampapato, degno del Papa. Così nasce il Pampapato di Ferrara Igp, una calotta (la cui forma ricorda proprio il copricapo cardinalizio) a base di farina, cacao, canditi e spezie dolcissima e pesante – no davvero, può raggiungere tranquillamente i 3 kg di peso. Il pampapato ferrarese si distingue dai cugini (Pampepato di Terni Igp, panpepato senese, pampepato di Anagni) per la caratteristica copertura al cioccolato fondente, “moderna” invenzione dei pasticcieri locali risalente ai primi del Novecento. Dalle austerità del monastero allo sfarzo della mensa papale, oggi è il dolce natalizio per eccellenza con cui indulgere anche post panettone.