Le certezze nella vita sono davvero poche: il cilindrotto di carne in scatola (quella nella gelatina) mangiato in purezza o schiaffato nell’insalata, come ripiego a pigrizia e/o caldo, è una di queste. Quel blocco lucido ed eterno di straccetti di manzo compattati nel brodo gelatinoso è di una tristezza infinita eppure vi siamo affezionati, siamo attaccati a quel sapore, a quella sensazione di semplicità e immediatezza senza pretese che ci accompagna ormai da generazioni. Ecco perché il tentativo di gourmettizzarla è una cosa che mi risulta incomprensibile.
E mi risulta incomprensibile perché è anacronistico e poco credibile portarla fuori contesto ora che è simbolo della cultura pop, non certo perché ritengo sia un prodotto inferiore. Infatti sono una grande fan, e mi rattrista sempre quando sento parlare della (nostra) carne in scatola come porcheria copiata dall’estero, quando i due grandi marchi italiani di riferimento hanno fatto la storia della gastronomia.
Si tratta di Simmenthal e Montana che, nel tentativo (assurdo, e non necessario) di riportare in auge un impiego gourmet del proprio prodotto di punta – forse per giustificare anche l’aumento dei prezzi, e arrivare diversamente a un pubblico che tende oggi a scegliere meno carne e più di qualità – stanno proponendo due spot quasi identici.
Nessuno mette la carne in scatola nel panino
Se la mamma a pranzo mangia ancora la carne in scatola nell’insalata (seppur in una versione molto pretenziosa), il bambino se la gode come farcitura di un burger (più grande di lui, quindi con almeno 3 scatolette dentro – un burger che sarà costato alla madre 25 euro) e il giovane (che evidentemente non sa cucinare, ma sa il fatto suo quando c’è da condire la Simmenthal) la mangia pura sull’ardesia e con spruzzatina di lime.
Entrambi i prodotti (Simmenthal soprattutto, della Milano ricca tra Ottocento e Novecento), nascono in un contesto di fine gastronomia e sono diventati famosi e apprezzati perché hanno reso semplice e alla portata di tutti una ricetta da sempre relegata alla bottega. Comprensibile, quindi, come durante il boom economico degli anni Cinquanta e Sessanta la carne in scatola in gelatina sia diventata sinonimo di modernità, di soluzioni smart ma buone in cucina, di una donna che non vive più solo per cucinare manicaretti “genuini” ma che comunque sa provvedere anche alla famiglia e agli ospiti. Che questo stile vintage sia sfruttato oggi più che mai è una scelta marketing che di per sé attrae e funziona (ed è usata spesso, anche nel beverage), peccato che suggerisca soluzioni che stridono.
Da Andy Warhol al fine dining
Il fine dining ha il suo bel ruolo in tutto ciò, dal momento che la tendenza evidente è prendere prodotti molto popolari per elevarli a gourmet. Una strategia che sta vincendo, e per restare in tema facciamo due esempi. Il primo è Valerio Braschi (vincitore di MasterChef e celebre per la sua carbonara liquida, nonché in generale per la sua cucina estrema): fino a pochi mesi fa era chef presso il ristorante 1978 di Roma, dove propose la “simmenthal78” ovvero una versione a base di pluma di maiale bianco marinato e brodo concentrato. Il secondo esempio è la scatoletta di Simmenthal o la Coppa Malù servite su un piatto da portata, presso il “brutal bar” Dirty a Milano (vedasi immagine d’apertura).
D’altra parte, molti prodotti che erano semplici e senza pretese fino a poco tempo fa ora sono associati a chef, a versioni molto più ambiziose, a ingredienti ricercatissimi, a contesti più elitari. La celeberrima “Campbell’s Soup Cans” che Andy Warhol propose nel ’62 è arte immortale, pop, provocazione sociale… oggi invece abbiamo chef Carlo Cracco ingaggiato dalla San Carlo per proporre una patatina condita con caviale, panna acida e lemongrass.
Persino i tramezzini confezionati sono diventati “gourmet” se serviti sul Frecciarossa – seppur identici alla versione precedente. Una patatina non è più solo una patatina da aperitivo bensì un amuse-bouche; pane bianco farcito al tonno non è più solo un tramezzino bensì un fingerfood stiloso; un gelato su stecco non è più solo un gelato su stecco bensì un dessert ideato da Iginio Massari con oro commestibile fava tonka e nettare di vergini sacrificali (si esagera, ma non troppo: molti chef hanno messo la propria faccia sul Cornetto, da Martina Caruso a Isabella Potì, ad Andrea Tortora).
E Simmenthal o Montana? Loro, belle così come sono, finiscono invece nel pane con lievito madre accanto all’insalata chilometro zero, oppure irrorate con il lime, nel poke, o impiattate a torretta con avocado e bulbi. Non ce n’è bisogno.