Se ami girare per negozi di prodotti asiatici, avrai visto spesso buste di alghe secche. Dalle nori che avvolgono sushi e temaki alle wakame da reidratare e gustare in insalata. Tra queste, una delle più misteriose, sia come aspetto che per i suoi utilizzi, risulta spesso l’alga kombu.
Per scoprire cos’è e come si usa questo prodotto, abbiamo chiesto lumi a un’esperta che più esperta non si può, Maiko Takashima ideatrice, insieme a Lorenzo Ferraboschi, di Gourmet Giappone, neonato sito di e-commerce di specialità della cucina washoku, tradizionale giapponese e patrimonio dell’Unesco.
«Le alghe kombu sono raccolte nel mare che circonda l’isola di Hokkaido, la più settentrionale del Giappone, vicina alla Russia», spiega Maiko. «Le sue proprietà organolettiche sono legate alle basse temperature dell’acqua e alla crescita lenta, durante la quale nutrienti e sapore si concentrano».
Lo sviluppo ottimale, ci spiega ancora Maiko, si ha nelle alghe di due o tre anni, dalle “foglie” ampie che, dopo la raccolta, sono tagliate in rettangoli ed essiccate. All’acquisto, le kombu si presentano come stecche o strisce verde scuro, velate di bianco, che altro non sono che sfoglie ripiegate su se stesse.
A cosa serve
L’utilizzo principale della kombu è nella base del brodo dashi, altro elemento imprescindibile della cucina jap. La preparazione è semplicissima, sebbene piuttosto lunga per via del riposo.
«La kombu non si misura in grammi ma in centimetri: ne occorrono 10 per ogni litro d’acqua. La prima operazione consiste nel mettere l’alga a bagno nell’acqua fredda, da 2 a 6-7 ore, in frigorifero. Poi, il tutto viene portato sul fuoco lento. Appena prima che si alzi il bollore, si spegne la fiamma e si elimina l’alga». E voilà: il dashi più elementare è bell’e pronto.
«Una volta scolata, l’alga si può affettare a julienne finissima e saltare con olio di sesamo o di semi, verdure varie come porri o carote, salsa di soia e sakè per un piccolo contorno».
Una volta, racconta Maiko, tutte le mamme giapponesi mettevano la kombu a bagno la sera, prima di andare a dormire, per averla pronta il giorno successivo. Oggi, che le vite di tutti vanno di corsa, ne esistono versioni concentrate liquide, in fiocchi o in polvere, subito pronte all’uso.
Con i legumi: sì o no?
Una pratica comune nella cucina macrobiotica o variamente “naturale” prevede di aggiungere un pezzetto di alga kombu all’acqua di ammollo e a quella di cottura dei legumi secchi. Secondo la narrazione green oriented, servirebbe a rendere più digeribili fagioli e affini. Purtroppo, non ci sono evidenze scientifiche al riguardo. E, a ben guardare, neppure sul fatto che i legumi non siano digeribili: semplicemente, hanno la brutta tendenza a fermentare in pancia, e per questo non c’è alga che tenga.
Viceversa, è vero che le numerose sostanze presenti in questo vegetale marino agiscono sulle bucce dei legumi, rendendole più tenere e quindi migliorando il risultato finale.
Il segreto del suo successo
Il vero effetto bomba della kombu è di aggiungere ai cibi una buona dose di umami.
Se non lo sai, l’umami è il quinto gusto, il “sapore di saporito”, secondo la definizione giapponese che ne fa il cardine di tutta la sua cucina, che fu individuato proprio grazie a uno studio approfondito della kombu.
Principale responsabile di questo gusto è il glutammato, sostanza naturale presente in molti cibi, dai pomodori al pesce secco, dai funghi ai nostrani grana e parmigiano, che lo sviluppano man mano che vanno avanti con la stagionatura.
Di glutammato nella kombu ce n’è in abbondanza. In abbinamento ad altre sostanze particolari, gli alginati, che creano la patina biancastra presente sulla superficie delle alghe e responsabile della loro consistenza gelatinosa, quasi carnosa.
Sa di pesce?
Non corrisponde a verità la credenza che, in quanto alga, la kombu sappia di salmastro. Un sentore che, anzi, sviluppa se trattata male, ovvero se si fa bollire a calore vivace: in questo caso, come spiega Maiko, «rilascia numéri, una sostanza appiccicosa dal sapore grezzo, che puzza di mare un po’ marcito! Ed è amara». Niente di invitante, insomma.
La precisazione però è importante: significa che, aggiunta alle preparazioni, non ne modifica sensibilmente il gusto, men che meno facendolo virare verso un artificioso “sapore di pesce”. Piuttosto, proprio come il glutammato monosodico di sintesi, utilizzato dall’industria come additivo alimentare, funziona da esaltatore di sapidità “tirando fuori” e concentrando le note aromatiche degli ingredienti.
Usi occidentali
Oltre che per i legumi la kombu, ma anche il suo brodo o i derivati concentrati, si possono impiegare con successo nella cucina occidentale. Per esempio, per rafforzare il gusto di minestroni, zuppe e verdure in umido. Provala nell’acqua in cui fai lessare i cereali, specialmente se integrali, e in quella in cui cuoci le castagne fresche o secche.
A patto, come detto, di non sottoporre l’alga a temperature violente e prolungate, né immergerla in liquidi agitati da bolliture vivaci.
Superalga?
Come molti ingredienti “di nicchia”, anche la kombu è assurta a dignità di superfood e da qualcuno usata addirittura come integratore.
Vero è che è ricca di roba buona come iodio (in realtà moltissimo, tanto da essere sconsigliata agli ipertiroidei), magnesio, calcio, potassio, fosforo, vitamine A, C e del gruppo B, antiossidanti, fibre… E che i già citati alginati svolgerebbero una funzione protettiva sulla mucosa gastrica. Ma è vero anche che le quantità minime di utilizzo, come spesso accade, non permettono di fare incetta di questo o quello.
Meglio allora sceglierla e utilizzarla puramente come ingrediente. Per dare ai piatti quel tocco di umami in più.