Per qualche assurda ragione googliamo “Lievito madre Bimby“, “Impastare Bimby“. I motivi sono forse riconducibili al fatto che impastare con il celebre robot da cucina è consuetudine. Una stupida consuetudine, però, a partire dalla confusione tra ciò che significa impastare e ciò che invece è mescolare.
Chiaro, il Bimby è un marchingegno utilissimo nonché alleato di grandi cucine professionali, lungi da noi volerlo demonizzare; dire “Bimby”, d’altro canto, è far riferimento al più celebre dei robot da cucina, meravigliosi salva-tempo per molte preparazioni, non altrettanto per pane e pizza.
Impastamento vs mescolamento
Partiamo da un assunto di base, una di quelle cose che non mi stancherò mai di ripetere e tuttavia ancora scarsamente compresa: “impastare” è diverso da “mescolare”.
Per unire acqua e farina e formare una massa con una certa struttura in grado di trattenere l’aria, di sviluppare e crescere in altezza (dando modo al prodotto finito di risultare leggero, soffice e friabile), non basta certo buttare gli ingredienti in una ciotola mescolando alla carlona e sperando nel miracolo.
Certo, esistono le cosiddette tecniche “no-knead” (tradotto: “senza-impasto”), che tuttavia richiedono un’attenta gestione e manipolazione, al fine da diminuire la variabilità e assicurare il più possibile la buona condotta di un risultato che, chiariamoci, non sarà mai standardizzabile agli stessi livelli di un impasto compreso e seguito dall’inizio alla fine.
Per il vero e proprio impastamento è richiesta una lavorazione specifica che, dopo una prima fase di miscelazione e della creazione di un’amalgama omogenea, si proponga di creare una struttura.
In panificazione, nella maggior parte dei casi ciò coincide con la formazione di uno dei complessi più importanti di questo mondo: il glutine.
Assorbimento minimo vs glutine
Ne parlavamo all’interno dell’articolo riguardante la scelta delle farine migliori per fare la pizza in casa, ma lo ripetiamo.
Tra le caratteristiche fondamentali per la scelta di una materia prima di qualità, dedita alla produzione di una tipologia specifica di pizza, pane o altro, oltre al W c’è l’assorbimento minimo.
Nient’altro è che una caratteristica reologica misurata il Farinografo di Brabender (un macchinario che registra graficamente la fase di impastamento di farina e acqua), e che indica l’assorbimento farinografico minimo necessario per raggiungere una consistenza specifica.
Si tratta, lo ricordiamo, di una peculiarità fondamentale che attesta l’acquisto di una materia prima di qualità, e che il mulino DEVE comunicarvi se lo richiedete.
Tradotto in soldoni, significa (in via approssimativa) che una farina con un assorbimento minimo del 60% potrà di norma reggere tale quantità di acqua massima durante la miscelazione.
Dopodiché, per inglobare quantitativi superiori, è necessario che la lavorazione dell’impastamento prosegua al fine di creare glutine, un complesso proteico formatosi dall’unione delle proteine più semplici (gliadina e glutenina) contenute nella farina, grazie all’acqua e all’azione meccanica.
Avete presente la famosa maglia glutinica, quella struttura elastica che durante la lievitazione trattiene l’anidride carbonica sviluppata dal lievito? Ecco, grazie alla continua sollecitazione, all’alternanza tra distensione e contrazione del glutine, tale maglia si rafforza.
Ed è sempre il glutine ad aiutarci con le idratazioni elevate, in quanto in grado di assorbire acqua per una volta e mezza il suo peso.
Certo, la parte cruscale ancora presente in farine di tipo 1, tipo 2 e integrali agevola l’assorbimento, ma rallenta anche la formazione della maglia, influendo soprattutto nella fase di miscelazione e aiutandovi a gestire l’acqua ma complicando la parte di impastamento.
Ergo, formare il glutine nella maniera corretta (ovvero graduale) è la strada più sicura e garantita per ottenere una massa salda, strutturata e in grado di resistere a tutte le fasi successive, dalla lievitazione alla cottura. E no, non è velenoso.
Planetarie vs impastatrici
Ecco perché c’è una grossa differenza nell’impastare con le due tipologie di macchinario più diffuse: la planetaria e l’impastatrice.
Avevamo già condotto una disamina completa sulle varie metodologie, ma riassumiamo qui i concetti più importanti.
Anzitutto, è bene fare una premessa utile a capire perché in questa sede stiamo confrontando solo le macchine.
I vantaggi dell’impasto a mano sono legati alla sua praticità in termini di spazio e all’investimento praticamente nullo, oltre al fatto che il calore trasmesso all’impasto (in riferimento a un tempo di 15-20 minuti) è di soli 2 °C. Per i malati come noi risulta poi essere un anti-stress naturale, motivo per il quale ancora oggi, nonostante la dotazione di macchine professionali, amo tornare “alle mani” in parecchie occasioni.
Purtroppo però affrontare impasti molto idratati può dimostrarsi complicato, e richiedere numerose fasi di stop e di pieghe di rinforzo per asciugare il semi-lavorato e consolidare al contempo la maglia glutinica. Risulta poi praticamente impossibile gestire un indiretto come la biga, troppo dura per essere sciolta uniformemente dalla forza delle mani.
C’è poco da fare: nella maggior parte dei casi difficilmente otterrete a mano un risultato allo stesso livello di uno a macchina, in quanto non avrete mai la costanza nel movimento e la potenza di una macchina da 1000-1500 W.
Il tutto premettendo che, in ogni caso, consiglio spesso a chi ancora si sta avvicinando a questo mondo un periodo più o meno lungo di lavorazione manuale, in quanto aiuta a rafforzare la sensibilità per gli impasti rendendo il passaggio agli step successivi ben più pratico ed indolore.
Ciò detto, ad oggi lo strumento più utilizzato in ambito domestico per l’impasto è sicuramente la planetaria, uno strumento che presenta un il ciclo di lavorazione dell’impasto con doppio movimento: il primo intorno all’asse dello strumento e il secondo che avviene, contemporaneamente, intorno all’asse del contenitore della macchina. Il termine “planetaria” si riferisce proprio al fatto che il sistema di rotazione ricorda il caratteristico movimento orbitale che i pianeti effettuano nello sistema solare.
Per la sua versatilità, la possibilità di variare le velocità e il suo costo contenuto la planetaria risulta parecchio apprezzata in ambito domestico, sia per il pane che per la pasticceria; è dotata di tre utensili: un gancio a uncino, una foglia e una frusta.
Negli ultimi anni però il settore delle impastatrici si è particolarmente sviluppato proponendo agli appassionati di cucina modelli di impastatrici professionali di ultima generazione che oltre ad essere tecnologicamente avanzati, grazie alle loro dimensioni riescono a trovare una collocazione nella gran parte delle cucine.
Esistono tre tipi di impastatrici professionali (a forcella, a spirale e a braccia tuffanti), ognuna nata per un diverso scopo e denominata in base al tipo di utensile presente per la lavorazione; la più diffusa e versatile è ad oggi la cosiddetta impastatrice a spirale, con la quale è possibile riprodurre un gran numero di preparazioni.
Qual è la differenza tra realizzare lo stesso impasto (con la medesima idratazione e ingredienti) con la planetaria o con la spirale?
È molto semplice: sfruttando l’azione del suo particolare utensile (il verme) la spirale genera una pressione dall’alto verso il basso chiudendo il glutine in maniera stretta e finalizzando in maniera, mentre il piantone centrale taglia l’impasto durante la lavorazione e lo espone meglio alla spirale stessa.
Oggi le ingenti migliorie tecnologiche hanno consentito una diminuzione sia del riscaldamento che dell’ossigenazione dell’impasto, consentendo un maggior volume finale a fronte di tempi di impasto ridotti (grazie alla velocità di rotazione, che in molti casi supera i 300 rpm).
Alcune macchine sono dotate della possibilità di inversione di marcia per formare le bighe e per un miglior raccoglimento della farina.
Strumenti che, come potete immaginare, vengono progettati appositamente per la creazione di un impasto il più perfetto possibile, in modo da velocizzare la formazione del glutine, scaldando poco il semilavorato ed evitando di eccedere nei limiti della stabilità della farina, altra caratteristica reologica importantissima presente sulla scheda tecnica del prodotto.
La planetaria, per quanto in grado di farvi raggiungere ottimi risultati, è pensata per aiutarvi con più preparazioni distinte che esulano dalla sola arte bianca, e che necessitano del movimento peculiare che la caratterizza.
Lavora purtroppo molto male con impasti duri, e senza la presenza del gancio impastatore come utensile aggiuntivo la formazione del glutine è rallentata e richiede spesso l’utilizzo di acqua da frigo per chiudere l’impasto sotto la temperatura limite di 27 °C, specialmente d’estate.
Poco male, chiariamoci: per un utilizzo modesto e per far fronte alle vostre molteplici necessità, con una buona planetaria sarete in grado di realizzare ottimi impasti anche di idratazioni elevate, come la classica pizza in teglia alla romana, basta comprenderne bene il funzionamento.
Ma noi siamo precisi, lo sapete, e le differenze vanno specificate.
Perché impastare con il Bimby è stupido
Abbiamo visto cosa vuol dire impastare.
Vi ho spiegato perché la formazione del glutine è così importante, e come deve essere condotta.
Abbiamo visto la differenza principale tra le più diffuse macchine da impasto.
Abbiamo fatto tutte le ipotesi necessarie per comprendere al 100% la nostra tesi.
Ora, finalmente, siamo arrivati al fatidico momento, quello in cui mi chiedete “Si ok, ma perché la planetaria si e il Bimby no?”
Semplice: il vostro amato robot tuttofare non possiede il movimento necessario per creare un IMPASTO.
Io vi capisco eh, avete speso una marea di soldi per un utensile e volete che vi risolva tutti i problemi della vita; un po’ come chi prende un dispositivo per il barbecue perché il venditore gli ha propinato la favola secondo la quale possa farci di tutto, persino la pizza.
E quindi niente, ce l’avete lì, e va usato per qualsiasi cosa sia lontanamente possibile, spinti come siete da una pulsione a dir poco irrefrenabile.
Peccato che esistono strumenti appositi per determinati prodotti, e altri con i quali realizzare una preparazione specifica vi porta a un risultato completamente fuori strada; a meno di modelli particolari, nei dispositivi da barbecue non avete la componente di calore dall’alto necessaria a cuocere una pizza come si deve.
Potete cercare di auto-convincervi quanto vi pare, ma è la verità, e lo sapete benissimo anche voi: state solo cercando di imitare un risultato che persino nel forno di casa vi uscirebbe 10 volte meglio, solo per giustificare un acquisto.
Con il Bimby il discorso è analogo.
Si tratta di un ottimo utensile, un tutto-in-uno presente anche nelle cucine di molti chef, in grado di velocizzare preparazioni di base come salse e triti.
Cuoce, pesa, frulla, mescola, riscalda, polverizza, macina, trita, emulsiona, grattugia.
Ma no ragazzi, il Bimby NON IMPASTA, non nel vero senso della parola.
Provate a pensarci: planetaria e spirale (ma anche le sorelle forcella e braccia tuffanti) hanno utensili posizionati nella parte superiore, che lavorano ingredienti posti nella vasca sotto di loro; in questo modo la preparazione è uniforme, ma soprattutto l’impasto viene “catturato” da tali utensili che accompagnano la formazione del glutine (come già abbiamo detto) dilatando e contraendo la struttura.
Il Bimby, al contrario, è dotato del gruppo coltelli posto alla base, che si limita ad amalgamare gli ingredienti con un movimento a vortice tipico del frullatore, scaldando per altro tantissimo lo stesso impasto.
Una volta che la vostra farina è stata idratata dall’acqua, l’impasto non farà altro che ballare tra le pareti sollecitato dall’utensile, e l’attrito scalderà ancora di più la massa.
Per carità, dovete fare un impasto per trancio milanese, pizza napoletana o qualsiasi altra cosa a idratazione relativamente bassa, e volete aiutarvi nella miscelazione?
Fatelo, del resto per queste preparazioni (se la materia prima utilizzata è di buona qualità), non è fondamentale una maglia glutinica solida perché in realtà l’assorbimento minimo potrebbe essere sufficiente a reggere il peso di tutta l’acqua della ricetta, e quindi vi basta poco per conferire struttura al prodotto.
Date una breve mescolata e poi recuperatelo subito e terminate la lavorazione a mano, ma questa è una semplice distinzione tra le due fasi, non state “impastando con il Bimby”.
Scortatevi invece le alte idratazioni, o lavorazioni più complesse con cereali meno panificabili diversi dal grano tenero: il movimento a vortice non consentirà mai alla maglia di dilatarsi e di contrarsi, e il calore generato è talmente elevato da non potervi permettere lavorazioni lunghe, costanti e controllate.
Senza contare che da quel buchino sul coperchio faticate a capire cosa sta succedendo.
Volete fare un “no-knead” con il Bimby?
Quindi mi state dicendo che usate un macchinario che costa più di mille euro per “impastare un senza-impasto”?
E poi ammettiamo la dura verità, spesso chi vi consiglia di impastare con il Bimby vi dice anche che basta una qualsiasi 00 da supermercato per fare qualsiasi pizza vogliate.
Quindi vi ritrovate a mescolare l’80% di acqua con una farina dall’assorbimento minimo, dal W e dalla stabilità ridottissime, frullando il tutto per qualche minuto, raggiungendo temperature atomiche e ritrovandovi con una colla che, a meno di avere una buona manualità, risulta impossibile da gestire.
Fatevi un favore: se non avete né planetarie né impastatrici, lavorate a mano.
Vi allenate, sviluppate sensibilità, scaricate la tensione e (cosa più importante di tutte) raggiungete risultati 20.000 volte superiori.