Fare il salame in casa sembra essere ormai una pratica d’altri tempi, un retaggio antico e dimenticato.
Del resto, la civiltà contadina dei nostri nonni cercava, per quanto possibile, di assolvere al fabbisogno quotidiano di cibo mediante prodotti fatti in casa. Non solo, la conservazione del cibo era un problema reale, considerando la scarsa diffusione dei frigoriferi nelle case; ai tempi si risolveva tutto con conserve, marmellate, essicamento e, ovviamente, insaccati.
Il salame era proprio uno dei prodotti che meglio si sposava con tale esigenza, sfruttando al tempo stesso il massimo delle materie prime.
Avrete sicuramente sentito il detto “Del maiale non si butta via niente”, dico bene?
Ovunque viviate, in Italia, sono certo che le storie dei vostri nonni ancora allietano in maniera nostalgica le vostre menti, specialmente se ne avete vissuta una parte insieme a loro.
E magari, alcune delle loro pratiche sono rimaste nel quotidiano, come spesso accade in ogni angolo del paese; nonostante l’era del consumismo e l’innegabile comodità di acquistare qualcosa di già pronto, non è affatto osservare nonne e mamme produrre quintali di pasta fresca, pomodori secchi, e l’immancabile salsa di pomodoro.
Dal canto mio, uno dei ricordi più belli che porto nel cuore è la preparazione annuale del salame con mio nonno.
E come spesso accade, ancora oggi dopo anni è diventato difficilissimo per me trovare qualcosa che qualitativamente si avvicini anche solo a quelle goduriose fette di meraviglia (al netto delle eccellenze, si intende).
Il motivo è presto detto: un buon salame ha bisogno di diversi tagli, di una speziatura condotta con criterio ma soprattutto di una maturazione bilanciata alla giusta temperatura. La maggior parte dei prodotti vengono portati in commercio troppo rapidamente, non hanno anima e sapore, la consistenza è tutta sbagliata e l’esperienza ne risente.
Che vi devo dire, sarà la nostalgia, saranno i sorrisi e le lacrime che mi provoca il ricordo di quelle giornate passate in famiglia a macinare e legare, per poi testare i mesi successivi il frutto della propria fatica.
Sarà quel che volete, ma con un bagaglio simile è naturale diventare così esigenti.
Capiterà sicuramente anche a voi di raccontare dei vostri nonni, di quando cucinavano, gettando le basi per la vostra smodata passione per il cibo.
Ecco, per me il ricordo non è rimasto indelebile solo nella mente; qualche tempo fa ho ritrovato in uno scatolone i miei quaderni delle elementari, e sfogliando è scivolata fuori una ricerca del quarto anno, dedicata a I Mestieri dei nonni.
Oltre qualche piccolo excursus di carattere generale, il vero focus del compito era quello di intervistare i propri vecchi sui loro storici lavori, spesso ormai scomparsi e in disuso: il calzolaio, l’arrotino, il ramaio.
Si insomma, non che fosse proprio un mestiere, ma decisi di portare anche il racconto di quei periodi natalizi annuali in cui, capeggiati da mio nonno, un gruppo composto da mio padre, i miei zii e amici di famiglia si riunivano per produrre quantità esorbitanti di salame, con intorno un piccolo Trezzi curioso.
Da tanto avevo desiderio di portarvi questa esperienza che arriva dal cuore, vi va di viaggiare insieme a me nei ricordi?
Perché il salame
C’è un motivo se la provincia milanese, la brianza e il lodigiano sono terre di norcineria.
La ragione è da ricercare nel tipo di clima della zona, che non permette una buona maturazione dei prosciutti.
Il salame poteva al contrario essere conservato facilmente nelle stalle e soffitte disponibili nelle cascine di una volta; oltretutto, producendo diversi tipi di salame è possibile sfruttare ogni parte del maiale, ottimizzando al meglio gli investimenti.
Anche se l’attività del nucleo famigliare contadino non era quello di allevare suini (come accadeva per i miei nonni, del resto), era uso comune possedere almeno un maiale proprio per produrre salumi per il fabbisogno alimentare della propria famiglia.
Andando più in là negli anni, con il pensionamento e la pratica che io stesso ho vissuto, l’usanza si trasformò in ricorrenza; qualche mese prima di Natale si iniziava a fare il conto dei partecipanti, e ognuno metteva una quota partecipativa.
Si comprava uno o più maiali (generalmente maschi giovani, dalla carne ritenuta più gustosa), e verso fine dicembre ci si radunava per la preparazione dei diversi tipi di insaccati; in base alla quota versata poi il tutto veniva spartito tra le famiglie, con qualche extra per chi aveva lavorato.
Di seguito vorrei portarvi a conoscere il ciclo di produzione, recuperato direttamente da quella famosa ricerca di quarta elementare, con un piccolo appunto: ciò che state per leggere fa riferimento al nostro metodo locale per fare il salame, ancora oggi usato in alcune delle nostre famiglie che amano in modo particolare la vecchia tradizione contadina.
Non è legge, non è l’unica metodologia valida, quindi vivetela come deve essere, con emozione e sentimento.
La produzione del salame
La fine e l’inizio
Una volta raggiunto il peso e l’età giusta, il maiale veniva macellato. Il periodo migliore erano i mesi di dicembre e gennaio, intorno a Natale, dove la maturazione naturale dell’animale raggiungeva il suo compimento e le basse temperature aiutavano a maneggiare al meglio la carne e conservarla quando fresca.
Mi piacerebbe sfruttare questo momento per una piccola digressione: oggi si fa parla tanto di sostenibilità, di largo ed eccessivo consumo e di abitudini malsane che andrebbero corrette.
Ecco, forse con questi presupposti parlare della fine di un animale può sembrare anacronistico e fastidioso, ma vorrei proprio riportarvi alla pratica dei nostri nonni. Non si macellava per consumismo e domanda, ma per esigenza; e non lo si faceva tutto l’anno senza ritegno, ma nei periodi giusti.
Sentir parlare di stagionalità è bello e giusto, ma non solo per le verdure.
A risvegliare ulteriormente il ricordo di norcineria è stato l’ultimo libro di Bonci, “Madre Pizza“; nell’illustrazione della sua filosofia di vita, Gabriele parla proprio della volontà di tornare alle usanze di un tempo, mangiando più uova in primavera, la carne ovina nel periodo pasquale e la suina in quello invernale.
In famiglia non compravamo insaccati; il consumo durava dal secondo al terzo trimestre dell’anno, in base alla scorta.
E se vi capita di bazzicare per Varzi e i comuni dell’Oltrepò Pavese, vi renderete conto di quanto sia difficile trovare del salame dopo Ottobre, perché l’usanza è stata conservata.
Dovremmo imparare dai nostri nonni, mangiando meno, mangiando meglio, e rispettando i cicli naturali di ogni elemento.
La scelta e la divisione della carne
Il giorno stesso della fine del maiale si procedeva alla suddivisione attenta delle carni a seconda del tipo di insaccato.
La più prelibata e magra veniva usata per la produzione del classico salame crudo (salam crou), il più buono e richiesto. Ma anche le interiora, la pelle (i codigh) ed il sangue venivano usate per produrre alcuni prodotti tipici: il cotechino (cudighin), il sanguinaccio (masapan) e il salame di fegato (murtadèla).
Il budello che ricopre l’intestino del maiale veniva conservato e trattato per fornire l’involucro che avrebbe contenuto la carne macinata.
Veniva prima pulito e conservato in acqua, sale e aceto (o limone), in modo da disinfettarlo e prepararlo allo scopo.
Oggi, purtroppo, la maggior parte dei salami industriali sono insaccati in materiale sintetico, che rimangono incollate alla carne (spesso troppo fresca) abbassando la qualità complessiva.
Al contrario, le caratteristiche del budello naturale permettono una perfetta maturazione che rendono il salame nostrano unico nel suo genere.
La pesatura della carne e delle spezie
La carne veniva pesata per calcolare la giusta percentuale di grasso, sale e spezie; le percentuali erano a discrezione gusto del produttore, e di fatto il salame era diverso da famiglia a famiglia.
Indicativamente si usava il 25 per mille per quanto riguarda il sale e le spezie, e il 30% di grasso.
Il sale aveva ovviamente una funzione conservante, quindi spesso ne veniva aumentata la dose se la conservazione doveva essere più duratura.
Dalle nostre parti, inoltre, era usanza aggiungere una piccola parte di carne di bovino (carna da bestia) per dare al prodotto finito determinate caratteristiche sia tecniche che di gusto; il salame di solo suino risulta più morbido e dolce, mentre con la carne bovina si otteneva (oltre ad un colore più scuro) un sapore più deciso e una consistenza maggiore anche con un salame giovane.
Altri ingredienti che venivano usati e calcolati in percentuale erano l’aglio e il vino rosso.
Tutti i prodotti erano ovviamente naturali, senza conservanti di natura chimica; a dirla tutta non era nemmeno necessario, perché quei prodotti rimanevano integri per un periodo di almeno un anno, semplicemente conservati in cantina.
Ecco, se dovessi darvi l’idea del gusto del salame di mio nonno, era proprio dato dal bilanciamento di vino rosso, che ne dava un colorito più violaceo e un sapore davvero caratteristico; se dovessi fare un paragone, siamo sulla stessa linea aromatica del grandissimo salame di Varzi o di alcuni nostrani del lodigiano.
La macinatura della carne
Prima di aggiungere il sale, le spezie e gli altri ingredienti, la carne veniva macinata con un tritacarne manuale, molto grande e pesante; sono gli stessi oggi utilizzati nelle macellerie, ma il nostro era manuale, non elettrico, e richiedeva ovviamente più tempo per la lavorazione.
La lavorazione della carne
Mentre si lavorava la carne macinata, mediante una manipolazione ripetuta sette volte, venivano aggiunti sale e spezie nelle giuste percentuali. Ovviamente il tipo di spezie aggiunte non erano sempre le stesse, ma variavano a seconda del salume.
Ho un ricordo indelebile di questa grande macchina di acciaio, a manovella, una sorta di vasca nel quale la carne e gli ingredienti venivano lasciati a ruotare, in modo che tutte le parti risultassero ben bilanciate tra magro, grasso e aromi.
L’insaccatura
Era il momento più laborioso, atteso e affascinante: l’insaccatura della carne nel budello.
Questa operazione era svolta con l’aiuto di una macchina costituita da un grosso serbatoio, da un pistone e da un tubo stretto, dal quale veniva spinta fuori la carne per essere poi insaccata nel budello.
Il salame veniva poi legato con dello spago, che era precedentemente stato bollito in acqua per la sterilizzazione.
Ricordo ancora quanto mi affascinasse vedere il gruppo legare un salame dopo l’altro; un’operazione tutt’altro che semplice, ma che dopo anni veniva svolta con maestria e velocità.
La prima volta che ci provai, con un salame di fegato, fu un disastro pre-annunciato, ma alla fine riuscì a tirar fuori qualcosa; giri e nodo erano talmente strambi che qualche mese dopo fu immediato riconoscere qual era la mia.
Insaccatura e legatura erano fondamentali per tenere il salume in forma, dritto, avere la stessa quantità di carne in tutta la lunghezza e consentire quindi una corretta maturazione.
Al termine dei giri di spago, si procedeva quindi a bucare le forme con delle punte di ferro in modo tale da far uscire l’aria.
Questa serie di operazioni poteva essere usata per tutti i tipi di salumi: cotechini, sanguinacci, mortadelle, cacciatori, con la sola differenza che, oltre a usare parti diverse del maiale e ad aggiungere spezie e liquori differenti, la grandezza e la forma di ogni salume doveva essere diversa.
La maturazione e la conservazione dei salumi
Il passo più delicato della produzione del salame era la sua conservazione: sbagliare a questo punto poteva voler dire vanificare tutto il lavoro svolto fino a quel momento.
La prima cosa da fare era quella di lasciare asciugare il salame in un luogo adatto; durante la fase di asciugatura il locale veniva mantenuto ad una temperatura, scrupolosamente controllata dai contadini, che va dai 10° ai 16°.
Successivamente i salami dovevano essere spostati in un luogo asciutto ma non troppo areato per la vera e propria maturazione che dura circa 3 mesi.
Mio nonno aveva una cantina con travi di legno che sembrava esser stata concepita apposta allo scopo; quando anni più tardi ci trasferimmo e loro vennero ad abitare di fianco, dovemmo cambiare luogo di conservazione, tenendolo in una cantina più moderna; inutile dirvi che il risultato, nonostante ancora ottimo, ne risentì particolarmente.
Ma non tutti i salumi dovevano seguire questo tipo di maturazione; alcuni, infatti, dovevano essere consumati entro poche settimane. Questi tipi di salumi dovevano essere cotti ed erano i vari cotechini, salamini freschi e sanguinacci.
La Pasqua del nonno
Mio nonno era una persona generosa e fortemente entusiasta, soprattutto rispetto a ciò che veniva dalle sue mani o da quelle di mia nonna.
Era il motivo per cui, di fatto, quasi metà della quota versata era la sua, e la maggior parte del salame veniva regalato ai suoi tantissimi amici del paese.
A Pasqua poi, prendeva i primi salami crudi e di fegato, accendeva l’affettatrice e iniziava a riempire il vassoio più grande che aveva, divertendosi a stampare il peso di quanto tagliato, ben consapevole che sarebbe stato impossibile finirlo in un solo pranzo.
Che dite, troverò mai qualcosa di così buono?