A che serve leggere la storia del pane? Ormai sappiamo tutto di questo alimento, no? Ne abbiamo colto i segreti più intimi, ne abbiamo visto l’anima: da quando abbiamo imparato a farlo in casa – tornando alle vecchie care tradizioni: pasta acida, farine non raffinate, magari forno a legna – ne deteniamo la formula magica. Ecco, leggere la Storia del pane, libro uscito da poco, serve proprio a questo: ad apprendere che le vecchie care tradizioni non prevedevano che il pane si facesse in casa. Che insomma il pane in casa è un’invenzione moderna.
Storia del pane di Gabriele Rosso
Storia del pane è un libro edito dal Saggiatore e firmato da Gabriele Rosso, slowfoodiano di vecchia data, curatore delle Guide Slow Wine, e da qualche anno redattore della rivista cartacea L’Integrale, che tratta il pane come oggetto culturale a tutto tondo (ops). Figlio di questa impostazione ideale, il libro di Rosso non è propriamente una storia del pane tout court, come l’anodino titolo lascerebbe supporre – e vieppiù fuorviante se posso permettermi è il sottotitolo Dall’Odissea alle guerre del XXI secolo (pochi cenni sia a queste ultime che soprattutto, e giustamente, alla prima). È in un certo senso molto di più: è la storia di come i cambiamenti riguardanti il pane, l’alimento più semplice (in apparenza) e centrale all’interno della civiltà, siano stati determinati dai cambiamenti nella storia del mondo, e ancora più clamorosamente abbiano determinato i cambiamenti nella storia del mondo, causandone le svolte più decisive. Un po’ nella scia, per capirci, dei bellissimi libri di Tom Standage Una storia del mondo in sei bicchieri e Una storia commestibile dell’umanità, che infatti Rosso nomina spesso.
Tanto che il volume più correttamente avrebbe potuto chiamarsi “Storia sociale del pane”. E anzi, visto che molti di questi rivolgimenti e di questi assetti storici che vedono il pane assumere un ruolo centrale vertono – come vedremo meglio a breve – sul conflitto tra classi dominanti e classi dominate (feudatari e signorotti vari vs contadini una volta, multinazionali vs sottoproletariato urbano costretto a mangiare junk food ora), visto questo, ancora più adatto sarebbe stato il titolo “Storia socialista del pane”. Ma capisco la riluttanza.
Di cose nuove sul pane se ne imparano assai, anche per i nerd come me e voi, nelle pagine di Rosso. Si apprende di come il pane, nato probabilmente in Egitto insieme alla birra e diventato alimento centrale delle tavole mediterranee nell’antichità, all’altezza della prima parte del medioevo abbia poi conquistato il nord Europa (in un proficuo scambio di abitudini culinarie con la carne, che invece ha compiuto il percorso inverso da settentrione a sud), nord Europa che oggi per una serie di ragioni culturali e climatiche siamo invece abituati ad associare all’idea di formidabili arti panificatorie.
Di come, lungo l’arco di secoli e per tutto il globo, il pane sia stato la scintilla di proteste e rivolte: jacqueries, bread riots, assalti ai forni. Di come i mulini a cilindri siano stati di fatto la prima macchina a produzione continua nella storia dell’industria. Di come nei romanzi realisti dell’Ottocento (e quindi nella realtà) il furto di un semplice pezzo di pane spesso abbia dato l’avvio a un inarrestabile effetto domino che porta alla rovina di una vita.
Quando fare il pane in casa era vietato
Tra tutte, la cosa che salta più all’occhio (al mio, almeno: quello di un panificatore domestico da tempi pre-pandemici) è però un’altra. E riguarda, appunto, l’usanza di fare il pane in casa. O meglio il suo divieto. Parlando delle rivolte per il pane che scoppiavano in tutta Europa nel ‘300, e che avevano come slogan un gioco di parole, un doppio senso sollevazione/lievitazione (le pain se léve in Francia, the bread will rise in Inghilterra), Rosso scrive:
“A guidare le sollevazioni nel 1381 furono Wat Tyler e il prete e fervente oppositore del feudalesimo John Ball. Costoro furono alla guida di una rivolta contadina che mise a ferro e fuoco prima Canterbury (con tanto di decapitazione dell’arcivescovo) e poi Blackheath, per poi marciare su Londra. Al re Riccardo ii, allora appena quattordicenne, Tyler chiese l’abolizione della servitù feudale, il diritto di macinare il grano e di cuocere il pane, così come quello di farsi la birra. Questo perché il sistema feudale, nel suo continuo moltiplicare le imposizioni e i balzelli di cui si nutriva il parassitismo nobiliare, impediva praticamente ai contadini di panificare a casa, obbligandoli a servirsi dei forni del signore, con tanto di tassa a fare da esoso contorno. Ovviamente anche questa rivolta fu soffocata nel sangue, e il diritto di macinare il grano e di cuocere il pane rimase precluso ai contadini inglesi”.
Ma non è stata sempre e solo una imposizione: in altri tempi, in altri luoghi, portare il grano al mulino per ricavarne sacchi di farina, come portare il pane al forno “centrale” per tornarsene a casa con le proprie pagnotte cotte, era una scelta dettata da convenienza. La particolarità di questi due momenti fondamentali nella preparazione del pane – molitura e cottura – posti peraltro all’inizio e alla fine del processo produttivo, alle estremità come dei guardiani, ha a che fare quella che tecnicamente si chiama economia di scala: insomma non conviene che ognuno faccia da sé, è molto più economico mettere i mezzi di produzione in comune. Da qui si originano varie storie interessanti, come quella che vede il mugnaio (che aveva il coltello dalla parte della macina, pardon del manico) come una delle figure più odiate nei tempi antichi, rivaleggiando col becchino e col boia. O quella dei marchi di famiglia, che si imprimevano sulle forme lievitate prima della cottura, per far sì che ognuno si riportasse a casa il pane proprio. Scrive ancora Rosso:
“In passato, infatti, fare il pane, soprattutto in un contesto poco antropizzato – e quindi nelle campagne, nei piccoli centri più isolati, nei paesini di montagna e nelle loro borgate –, è stato per tantissimo tempo una faccenda comunitaria. Funzionava più o meno così: ogni famiglia – che spesso era una famiglia allargata, quindi diciamo pure ogni casa – impastava quanto era nelle sue disponibilità per poi ritrovarsi al forno comune in un giorno stabilito e con una cadenza condivisa; quindi lo si accendeva, e si cuoceva il pane di tutti. Di testimonianze di forni comuni così intesi è colma la nostra storia recente, quella delle generazioni che hanno vissuto il primo scorcio del Novecento, ma spesso è soltanto storia orale, visto che apparentemente questo frammento del mondo del pane ha destato poco interesse sui posteri.
Eppure i forni comuni, oggi un fenomeno di totale marginalità, al massimo il tentativo di conservazione di antiche usanze da parte di comunità mediamente molto isolate, in un passato nemmeno così lontano erano la norma. Nelle città c’erano i forni di quartiere, in campagna quelli vicino alla casa padronale o nel podere principale, in montagna quelli di borgata. Erano forni a legna usati principalmente per la panificazione, e l’accesso era perlopiù pubblico e comunitario, così come fare il pane era occasione di incontro, spesso anche di festa se non di rito collettivo”.
Si deduce quindi, a contrario, che la panificazione domestica così come oggi la conosciamo non è mai esistita (anche se ricordi personali tramandati in famiglia parlavano di forni a legna in ogni casa, nei paesini del meridione a sud di Eboli, attivi almeno fino all’immediato dopoguerra). O che almeno è stata marginale, minoritaria. Neanche l’avvento dei forni elettrici domestici negli anni ’60, sottolinea Rosso, ci ha portati a fare a casa il pane: pane che nel frattempo era diventato quella schifezza industriale, inutile e insapore, che mangiavamo fino agli anni ’90. E che ha determinato l’ultima grande rivolta del pane: una rivoluzione silenziosa e atomistica, come un contagio, ma come un contagio diffusa e inarrestabile. Ma questa è, appunto, un’altra storia: una storia assolutamente moderna.