“Il gusto delle cose” è là dove nasce la gastronomia: il film definitivo sul cibo

Il gusto delle cose di Tran Anh Hung con Juliette Binoche narra la nascita della gastronomia così come la conosciamo oggi. La nostra recensione.

“Il gusto delle cose” è là dove nasce la gastronomia: il film definitivo sul cibo

I film sul cibo non parlano quasi mai di cibo. Nonostante l’abbondanza di ciò che si mangia con gli occhi, i temi reconditi di questo filone sono altri: amore, perdita, famiglia, identità, rivalsa. Il gusto delle cose di Tran Anh Hung con Benôit Magimel e Juliette Binoche riesce a fare bene entrambe le cose. Ovvero mostrare e parlare benissimo di cibo, ma anche utilizzarlo come espediente per toccare corde ben più profonde.

Non c’è solo estetica dunque. Il gusto delle cose è un film sul cibo a tutto tondo, a partire dal dietro le quinte stellato e una fotografia superlativa che immortala il cibo in presa diretta (peraltro, cucinato dagli attori stessi). Ambientazione e sceneggiatura raccontano la fase più gloriosa della cucina francese che coincide con la nascita della gastronomia. Il focus sull’atto del cucinare immerge lo spettatore in un’atmosfera sensoriale che eclissa completamente gli Asmr a tema food che affollano TikTok. Infine, il fil rouge della storia fa capire quanto sia fondamentale il gesto, la cura, la devozione dietro a un piatto: non tanto l’amore per il cibo dunque, quanto il cibo come atto d’amore.

Ecco perché Il gusto delle cose è il film definitivo sul cibo.

Titolo e trama

film il gusto delle cose

Il film è stato presentato a Cannes 2023 con il titolo “Le Pot au Feu”. Il piatto tipico francese della tradizione contadina è infatti protagonista assoluto della storia. Tuttavia après festival la pellicola è stata distribuita in Francia con il titolo “La Passion de Dodin Bouffant” dal romanzo omonimo (in inglese “The passionate epicure”) del 1924 di Marcel Rouff. A livello internazionale invece si è scelto “The taste of things”: elegante ed esplicativo, certo, ma molti avrebbero preferito la primissima opzione. Quel pot-au-feu così amorevolmente (e impeccabilmente) preparato infatti la dice lunga su cosa è davvero questo film.

Diretto dal regista vietnamita Tran Anh Hung, i protagonisti sono il gourmet Dodin Bouffant (Magimel) definito “il Napoleone dell’arte culinaria”, e la cuoca e partner Eugénie (Binoche). Siamo nella campagna francese del 1889, nella grande casa dello chef-gourmand. La scena si svolge tra cucina, giardino e sala da pranzo dove Dodin intrattiene ospiti e amici. Al centro della storia, l’amore corrisposto tra i due protagonisti che tuttavia non riusciranno mai ad appartenersi davvero. Eugénie è una donna indipendente, che pur amando Dodin, sceglie quando e come concedersi. E ciò vale anche per le sue incredibili capacità in cucina.

Intorno a loro gravitano l’aiutante Violette, la giovanissima chef prodigio Pauline e la combriccola di messieurs appassionati gourmet. Ma anche, indirettamente, le figure chiave della storia culinaria francese. Basti pensare che il romanzo di Rouff (e dunque il personaggio di Dodin) è basato su Brillat-Savarin, primo gastronomo moderno.

Il dietro le quinte stellato

Che si tratti di pubblicità o lungometraggio, la resa del cibo sullo schermo è una vera e propria sfida. Come fa Il gusto delle cose a riuscirci così bene? Il regista ha dichiarato di porre particolare attenzione ai gesti delle mani, un punto di vista che si ritrova nei suoi film. Ma non basta. Così, molta della fotografia curata da Jonathan Ricquebourg si avvale dell’aiuto di veri chef.

C’è la consulenza del tristellato Pierre Gagnaire per il design di piatti appropriati al Diciannovesimo secolo. E la supervisione del suo allievo Michel Nave che, presente sul set per tutta la durata delle riprese, ha personalmente guidato Binoche e Magimel nell’esecuzione delle ricette. In altre parole, gli attori cucinano davvero. Anche i piatti sono autentici, usati come catering per tutta la crew. Non è scontato. Lo sa bene chi lavora nel food design, specie per la pubblicità. Il cibo quasi mai è commestibile: vengono usati materiali (colla, cera, plastica) che vengono bene in foto e video. Oppure i piatti sono curati solo dal punto di vista estetico, non importa il gusto.

È stato il caso ad esempio di Big Night diretto da Campbell Scott e Stanley Tucci, considerato uno dei capisaldi del filone film sul cibo. Sulla decisione hanno dichiarato: “Cerchiamo di creare cibi deliziosi per gli attori, oppure cuciniamo roba insapore che sembri buonissima e recitiamo? Ovviamente ha prevalso il recitiamo”. Il tipo di approccio usato ne Il gusto delle cose invece non ha solo aiutato la resa visiva. Ha intensificato il rapporto tra cibo e personaggi e fortificato il lavoro di gruppo. Perché è innegabile che intorno alla tavola si costruiscano e affiatino le relazioni (per diamine, lo dice anche il ministro dell’agricoltura!).

La storia della gastronomia

IlGustodelleCose

La limitata sceneggiatura de Il gusto delle cose ci immerge in un’atmosfera ben precisa. Siamo nella Francia della Belle Époque, la prima in cui valori come tempo libero, cultura, tavola vengono esaltati. Soprattutto è il periodo storico che coincide con la consacrazione definitiva della cucina francese. Ci sono almeno tre figure che aleggiano nelle conversazioni e nei piatti, la cui portata definisce lo spazio intellettuale in cui l’azione si svolge.

A partire da Carême, cui viene dedicato un sofficissimo vol-au-vent. Considerato il primo celebrity chef (da cui il soprannome “Il re degli chef, lo chef dei re”), ha rivoluzionato e codificato la haute cuisine dalle salse madri alla pasticceria classica. C’è poi il suo successore Escoffier, considerato chef innovatore e il primo a stabilire un brand personale collaborando con i grand hotel (Savoy, Ritz, Carlton). Dobbiamo a lui la gerarchia stile brigata militare della cucina, la struttura del menu, l’internazionalizzazione della cucina francese.

L’ultima figura resta sullo sfondo, a parte un fugace omaggio a dei beignets. Si tratta di Brillat-Savarin, politico e gourmand su cui il personaggio di Dodin è disegnato. Autore de La fisiologia del gusto, è stato il primo in assoluto a celebrare l’arte della cucina e del mangiare, di fatto elevando la gastronomia a scienza. Il trittico restituisce lo spaccato di un’epoca che ha definito un certo tipo di gusto e lo ha mantenuto negli anni a venire – per certi versi, fino a oggi.

Il cibo sensoriale

il gusto delle cose

La prima scena estesa del film dura circa mezz’ora e si svolge interamente in cucina. Si sfiletta il pesce, le uova sfrigolano, le verdure vengono tagliate. Il focus è interamente sulla preparazione con pochissime direzioni verbali rivolte alla brigata. A un certo punto tutti si siedono a tavola per condividere un’omelette in vista dello sforzo più concitato che precederà il pranzo. Dodin dice a Pauline: “Ti consiglio di mangiarla con il cucchiaio. Fa tutta la differenza”.

Da questa frase di apertura capiamo l’approccio di Dodin (e del film) rispetto al cibo. Una dimensione materica e sensoriale che pone attenzione alla cura, al dettaglio, all’assaporare. La ritroviamo più tardi, nella scena memorabile in cui lo chef mette alla prova il talento di Pauline nel riconoscere i sapori. La bambina chiude gli occhi e concentrandosi elenca gli ingredienti. La telecamera ci fa partecipi con uno stacco sulla pentola mano a mano che questi vengono aggiunti. Si percepiscono gesti, rumori, profumi. Possiamo quasi assaggiarlo questo piatto.

Talmente importanti sono il cibo e la natura circostante, che il film non ha una colonna sonora. I close up di piatti e preparazioni sono utilizzati in modo sapiente, senza mai scadere nel food porn. Piuttosto ridanno dignità alla materia prima, concentrandosi in modo particolare su come questa viene maneggiata. Anche il modo di sistemare gli ingredienti non è casuale, e ricorda certi quadri di natura morta a cavallo tra Seicento-Settecento. Un vero e proprio feast for the eyes (banchetto per gli occhi) ritratto con una luce e fotografia che paiono dipingere.

Gli approcci del gusto

Il gusto delle cose ci spiega anche i diversi approcci a riguardo. Innegabilmente prevale il piacere, seppure in modi inaspettati rispetto ad altre pellicole. Assente il facile voyeurismo del cibo fine a se stesso, anche se certamente si percepisce l’ammirazione per piatti elaborati e spettacolari. Il vero piacere invece traspare da pasti frugali condivisi da un unico piatto, da un semplice boccone di formaggio o pan brioche divorato con le mani. Si accenna anche al piacere più puro, fisiologico e primordiale. L’uno descritto minuziosamente dalla salivazione in giù. L’altro inteso come prima forma di comunicazione dell’essere umano: quella del neonato verso il latte materno, in una bella immagine evocata dal medico Rabaz.

C’è poi la dimensione del gusto come sapere, manifestato attraverso tecnica e degustazione. È in parte presente nella cucina intuitiva eppure rigorosissima di Eugénie; lo è soprattutto fra i gourmands che circondano Dodin. Commentando ed esaltando i virtuosismi culinari della chef fra cui spicca l’omelette norvégienne, essi dimostrano la loro competenza riconoscendo quella di Eugénie. Sotteso c’è un accordo su cosa è il gusto, inteso come buon gusto acquisito con esperienza e validazione fra pari.

È vero anche il suo contrario: l’assenza del gusto, intesa come mancanza di sensibilità e incapacità di apprezzare l’universalmente buono o bello. È l’approccio del principe di Eurasia, che non incontriamo mai ma di cui possiamo intuire il non-gusto. Il pranzo da lui organizzato è una rarefatta accozzaglia di ingredienti e piatti altisonanti, uno sfoggio di lusso che dura ben 8 ore e da cui i gourmands escono appesantiti e indifferenti. Dodin ricambia l’invito con un menu assai più misurato ma che dimostra tutto il suo buon gusto. E al cui centro c’è, naturalmente, l’umile e squisito pot-au-feu di Eugénie.

L’amore per il cibo, il cibo come amore

“Sono vostra cuoca o vostra moglie?”. La domanda della disincantata Eugénie racchiude il significato più profondo de Il gusto delle cose. Cibo e sentimenti sono intercambiabili, l’uno a servizio dell’altro. L’amore per il cibo implica rispetto, pazienza, attenzione. Il cibo come amore è cura, devozione, nutrimento. In mezzo ci sono temi come stagionalità e caducità (della vita e degli ingredienti), il dolore di una perdita che si sublima nella cucina, o ancora la gioia di realizzare un piacere, seppure effimero. Vale per un piatto, vale per un rapporto.

Quella con il cibo è per forza di cose una relazione intima: si maneggia, si trasforma, si incorpora. Cucinare diventa l’atto di amore supremo e i protagonisti ce lo dimostrano continuamente. Quando vediamo Dodin intento a preparare personalmente la cena per la sua Eugénie, il messaggio è chiaro. Ti dono il mio tempo, la mia passione, il mio talento, ti dono me stesso per vederti felice. Fare l’amore, sposarsi, nutrire, mangiare diventano tutt’uno. Talmente amore e cibo sono legati, che nella perdita dell’altro si perde anche l’appetito.

Così (SPOILER) dopo l’inevitabile morte di Eugénie, Dodin si rifiuta di mangiare. Non solo: non permette a nessuna di rimpiazzarla, cucinare per lui o anche solo invadere lo spazio sacro che era la cucina di Eugénie. Solo Pauline sarà ammessa ai suoi insegnamenti, lei che con le sue doti prodigiose e la giovane età sembra l’unica promessa per Dodin di ritrovare l’intesa perduta. Così insieme iniziano a costruire: una ricetta (la pot-au-feu) che diventa metafora di una relazione. Perché la risposta alla domanda iniziale era: “Ma cuisinière!”.