Il futuro del cibo online è fuori dai social? Sembra strano dirlo in questo momento, in cui impasti e ricette ci saltano addosso da ogni canale Instagram, in cui influencer del cibo diventano brand internazionali e celebrity di altri settori condividono diete e pasti. Ma la risposta è senz’altro positiva, se guardiamo a quello che sta succedendo oltreoceano – cioè a quello che probabilmente accadrà qui tra poco – e soprattutto se per social intendiamo quelli tradizionali. Perché quello che accade è che il discorso si sta spostando su altri canali, che funzionano in modo leggermente, ma sostanzialmente diverso: le chat di gruppo.
Che il panorama social muti radicalmente a ogni giro di stagione, è un dato di fatto. L’ingresso di TikTok, con il suo notevole coté mangereccio, il cosiddetto #foodtok, ha cambiato le carte in tavola rispetto a un panorama classico (fa ridere parlare di classico per cose che dieci anni fa a stento esistevano, ma tant’è) dominato dalla trinità Facebook-Instagram-Twitter. Come ha spiegato molto bene Andrea Daniele Signorelli in un articolo sul Domani, il cambio di paradigma è in un certo senso un ritorno all’antico: mentre il social network originario è basato su un contatto tra pari (l’amicizia di Fb) già messo in leggera discussione dal modello basato sul follow, che non è intrinsecamente biunivoco, TikTok ha liberato la maggior parte degli utenti dall’obbligo (e dall’ansia) di postare: oggi le persone che stanno sul social cinese ne fanno un uso principalmente passivo, seguendo i propri canali preferiti o ancora meglio i “per te” decisi dall’algoritmo. Che cosa ci ricorda? Esatto, la televisione. E neanche la televisione contemporanea, quella settoriale e on demand, ma quella tradizionale di flusso, con il suo schema top-down, i contenuti che calano dall’alto: il “cosa danno stasera in TV?” può oggi tranquillamente essere sostituito da “qual è oggi l’argomento o il meme trendy?”.
Beh, ma questo per influecer e creator, come si dice mo, dovrebbe essere il paradiso: via dalle scatole i signori nessuno e i dilettanti allo sbaraglio, ce la vediamo tra professionisti, pochi e buoni. Sta di fatto che, però, non va così. Già qualche mese fa il sempre ottimo Eater scoperchiava la verità dietro i video patinati e le foto da food porn: la maggior parte degli influencer cade preda di ansia, stress, esaurimento nervoso e vera sindrome da burn out. L’obbligo di inserire contenuti con frequenza elevata, di mantenere i propri standard qualitativi, di interessare sempre i propri follower e cercare di acquisirne di nuovi – insomma il modello di crescita infinita che sembra dominare in generale lo stupido tardocapitalismo – sta trasformando quello che in teoria sembra il lavoro più bello del mondo, cucinare e mangiare facendo soldi, in un inferno. Qualche giorno fa lo stesso sito ha individuato una tendenza ancora in embrione ma con buone probabilità di diventare un solido trend: lo spostamento di influencer e piccoli marchi, il progressivo abbandono dei social dominati dall’algoritmo – e in questo caso, guarda un po’, tra i “vecchi” ci cade anche il teen TikTok – in favore di nuove realtà online come Discord.
Discord è una piattaforma di comunicazione che può essere usata sia come classica app di messaggistica sia per creare gruppi: non sono però i gruppi whatsapp cui siamo abituati, ma grupponi come se ne vedono anche su Telegram. Si trovano all’interno dei server, ambienti che possono essere sia pubblici (aperti a tutti) sia privati (su invito); ogni server può essere suddiviso in canali specifici per argomento. Le funzionalità di livestream e chat vocale lo hanno inizialmente reso popolare nella community dei gamer, ma la sua base di utenti si è ampliata e Discord ora vanta oltre 150 milioni di utenti attivi mensilmente. Eater riporta il caso di una società come Diaspora, nata 5 anni fa per sopperire alla mancanza di spezie asiatiche in Usa, e in un primo momento molto attiva su Instagram. “Diaspora ha essenzialmente trasformato il suo server Discord in una piazza: i membri condividono ricette e recensioni di libri di cucina, discutono su dove procurarsi ingredienti difficili da trovare e fanno crowdsourcing su come usare petali di rosa e fave”.
https://www.instagram.com/p/Cfl_EPvDxJH/
Il punto è proprio sfuggire alla dittatura dell’algoritmo: una delle prime cose che ha fatto Instagram per inseguire TikTok, è stata quella di dare più spazio ai video e meno alle foto. Un’altra cosa, più recente è stata quella di aumentare nel feed di ognuno di noi lo spazio per i post di account che non seguiamo, ma che secondo i suoi calcoli da intelligenza artificiale potremmo (dovremmo?) seguire. Questo ha creato un appiattimento verso i contenuti più virali, insomma un restringimento e non un ampliamento delle possibilità: chi prende più like viene premiato e ne prende sempre di più. A tutto discapito delle realtà piccole, come scriveva anche il New York Times, che hanno iniziato a lamentare consistenti cali di visibilità e quindi di vendita.
Non ci sono solo i piccoli: su Discord il gruppo più grande, con circa 50.000 membri, è quello di Wendy’s, la catena di fast food americana. E poi c’è chi come Ian Moore ha deciso di non entrare in una piattaforma esistente ma costruirne una nuova. Ispirato da una chat di gruppo dedicata al barbecue, nel 2020 ha avviato DEMI Community con l’obiettivo di aiutare gli chef a guadagnare attraverso la costruzione dei propri spazi online. “Instagram è molto costruito sulla quantità di follower che hai, piuttosto che sulla profondità di ciò che fanno quei follower”, dice Moore a Eater. Invece, DEMI è incentrato sulla potenza di una fan base più attiva anche se più piccola. Attraverso DEMI, uno chef o un food creator agisce come un host della community, guidando le discussioni, offrendo suggerimenti e rispondendo alle domande; l’accesso è tramite abbonamento mensile. Allo stesso modo, c’è The Plate, una piattaforma con sede a Berlino che mira a restituire il “controllo ai creatori di cucina” attraverso un modello basato su abbonamento per contenuti esclusivi.
E da noi? Piattaforme come Discord sono ancora poco diffuse, quindi al momento l’ostacolo è a monte. Ma scommettiamo che, non tanto per imitazione quanto per una simile necessità, la stanchezza che si percepisce per i meccanismi dei social ci porterà in breve a ricostruire altrove comunità più piccole ma più sentite, legate da interessi specifici. Come si dice in questi casi: purché se magni.