Bella e selvaggia, la Calabria è una regione da scoprire. La punta dello Stivale offre panorami mozzafiato, tradizioni millenarie, mare cristallino e soprattutto un’offerta gastronomica vastissima. Lasciatevi guidare da noi, dalla Sila all’Aspromonte, da Ionio a Tirreno in un itinerario alla scoperta dei migliori piatti tipici calabresi.
Piccola premessa: la cucina della Calabria è assai variegata e va ben oltre la ‘nduja, tanto per citare la portabandiera. Ecco qualche elemento ricorrente per orientarsi: tanti agrumi (fra cui cedro e bergamotto dagli intensi oli essenziali), uso smodato ed entusiasta del peperoncino, trittico di peperoni-patate-melanzane dappertutto, predominanza della carne sul pesce facilitata (va detto) dall’onnipresenza degli insaccati a pasta morbida.
Condite il tutto con un’ospitalità generosissima al limite dell’invadente che non vede l’ora di rimpinzarvi, e avrete una vaga idea di cosa è la cucina calabrese. Non vi resta che provarla dal vivo attraverso sardella, pitta, cuccìa, frittola, morzello e gli altri 23 piatti tipici calabresi da provare.
Gazzosa al caffè
Non capita tutti i giorni di trovare le parole “gassosa” e “caffè” nella stessa frase: se è per questo neanche in Calabria, dove la soda in questione viene rigorosamente chiamata con il brand di riferimento (Brasilena, per non fare nomi). Questa bollicina analcolica è una vera e propria istituzione pop, e c’è di più: le province di Cosenza, Catanzaro e Reggio Calabria, sedi delle tre principali aziende produttrici, fanno a gara nel rivendicare paternità e superiorità della ricetta, invenzione che, pare, risalga ai primi del Novecento. Campanilismi a parte, la gazzosa al caffè, fresca, frizzante ed energizzante, è un ottimo ricostituente, soprattutto nelle incandescenti giornate estive.
Pitta
Dalla medesima radice linguistica di pizza, piada, piadina, pinza e pita arriva la pitta calabra. Questa ciambella di pane tipica è caratterizzata da forma rotonda e schiacciata, buco centrale e scarsa quantità di mollica. La pitta diventa così una sorta di panino vuoto dall’involucro croccante che aspetta solo di essere imbottito. Ad esempio con morzello e sardella (vedere più avanti), provola, pecorino crotonese Dop, salsa ai peperoni, melanzane fritte e tutto l’immaginario bucolico della gastronomia calabrese più autentica.
La pitta, come tutte le forme di pane degne di questo nome, ha varianti in tutta la regione. Quella grecanica si chiama lestopitta, letteralmente “pitta veloce” senza lievitazione più simile al pane arabo. La pitta china invece designa una focaccia rustica da farcire con pomodorini, alici, ricotta e erbi i margiu, erbette di campo. La pitta filata infine è una vera e propria torta salata tipica di Conidoni di Briatico. È caratterizzata da sfoglia a ventaglio e aroma di fiori di sambuco.
Sardella
L’aperitivo crotonese è non è tale senza la fetta di pane condita generosamente di sardella. Questa conserva di pesce, chiamata anche rosamarina o caviale dei poveri, viene preparata tradizionalmente con i bianchetti. Gli sventurati esemplari di sardine appena nati vengono impastati con tanto (TANTO) peperoncino e finocchio selvatico. Nonostante la storia e l’importanza del prodotto a livello locale, la pesca dei bianchetti è oggi vietata a livello UE: fa niente, i calabresi si adeguano e usano come surrogato il pesce ghiaccio, una specie di Peter Pan marino che mantiene i suoi caratteri giovanili anche da adulto. Le istruzioni per l’uso per mangiare la sardella? Conzarla (allungarla) con abbondante olio e attenzione a non sporcarsi, macchia da morire.
Cuccìa
Più che un piatto, un viaggio attraverso l’area rurale della provincia di Cosenza. A seconda del borgo di provenienza infatti cuccìa va a designare preparazioni in apparenza molto diverse tra loro. L’unico elemento in comune sembra essere il grano bollito. A Mendicino ad esempio è un piatto vegetariano (ci azzardiamo a dire vegano) a base di legumi, castagne e cereali. Nei comuni di fascia presilana invece la cuccìa è una zuppa sostanziosa a base di carne di capra o maiale, grano bollito e spezie. La preparazione si svolge nell’arco di tre giorni e avviene nel tradizionale calderone in terracotta chiamato tinìellu. E non è finita qui: a Paola la cuccìa si presenta in versione dolce, sotto forma di cioccolata calda aromatizzata alle spezie. Insomma, ce n’è per tutti i gusti.
Morzello
Ci spostiamo a Catanzaro per assaggiare ‘u morzeddhu, il panino imbottito di trippa e frattaglie di bovino. Queste navigano nel sugo al pomodoro piccante tanto che la pitta, ideale per sostenerlo vista la scarsa quantità di mollica, soccombe facilmente al condimento. Il morzello veniva tradizionalmente consumato come spuntino mattutino: verso le dieci infatti molti lavoratori avevano già sulle spalle quattro o cinque ore di lavoro. E voi ve la sentireste di affrontare questa succulenta colazione dei campioni?
Frittola
A Reggio Calabria la frittola è il piatto che fieramente dichiara: “Del maiale non si butta via niente”. Per questa preparazione si fa sciogliere una grande quantità di grasso di maiale in un pentolone apposito chiamato caddàra; dopo aver aggiunto un po’ d’acqua, si incorporano svariate parti di scarto dell’animale (muso, guancia, cotenna, lingua, orecchie, rognone) e si fa bollire il tutto per almeno sei ore. La frittola calabrese, l’avrete intuito, è fortemente collegata al rituale di uccisione del maiale, evento collettivo che avveniva nel periodo compreso tra il Natale e il Carnevale. Non per tutti gli stomaci ma sicuramente da provare, soprattutto se vi capita di perdere una scommessa.
Ragù calabrese
Di ragù ne esistono centinaia di varianti. Quelli calabresi non fanno eccezione, tuttavia c’è almeno una ricetta riportata da dirette fonti locali che vale la pena citare. Gli ingredienti: polpa di maiale, muscolo di manzo, salsicce e pancetta cruda di maiale, polpette di macinato misto e pane secco ammollato nel latte. Il procedimento: rosolare il tutto con vino bianco e alloro, coprire con passata di pomodoro e cuocere a fiamma bassissima per sei ore. Risultato: già vi vediamo a leccare il cucchiaio!
‘Nduja
Fatevi un giro nel fine dining di Londra, Parigi, New York: se la ‘nduja calabrese continua ad avere un successo contagioso un motivo ci sarà. L’insaccato morbido originario di Spilinga composto da carne di maiale e peperoncino non è semplicemente buonissimo, crea dipendenza. Tutto merito dei sapori genuini che ci sono dentro: preparare la ‘nduja infatti significa prima di tutto qualità, ma anche pazienza e tradizione.
La carne, da suini di età non inferiore ai 14 mesi dalla cui alimentazione è escluso il siero di latte, è rigorosamente macinata al coltello. Il vero protagonista è però il peperoncino di varietà tri pizzi a tre punte: esso infatti agisce da conservante naturale per le proprietà antisettiche e antiossidanti. In passato i peperoncini venivano appesi in lunghe collane e lasciati essiccare per tutta l’estate. Alla cosiddetta “ora del maiale” aka i mesi di dicembre e gennaio venivano staccati, macinati e impastati con il grasso suino. Dopo averla insaccata in budello, la ‘nduja viene affumicata per 10 giorni e stagionata per almeno un anno. A questo punto è pronta per essere spalmata: su pane, pasta, pizza, formaggio, direttamente sulla lingua, fate voi.
Fileja
A proposito di abbinamenti con la ‘nduja: la fileja, pasta di grano duro tipica di Vibo Valentia, è la candidata ideale. Il formato lungo e ricurvo che ricorda molto le busiate trapanesi viene ottenuto attorcigliando l’impasto intorno al dinaculu, un sottile bastoncino di legno. Questo a sua volta è un’evoluzione della virgula, ricavata dal gambo della pianta selvatica disa. Più artigianale di così non si può: conditela come più vi piace con peperoni cruschi, caciocavallo, ricotta salata, soppressata, ragù. O perché no, anche un bel pesto alla siciliana sperando non si offenda nessuno.
Pasta ca’ muddica
Rimaniamo in tema pasta con questa ricetta, un classico della cucina del recupero. In questo caso abbiamo a che fare con la mollica di pane, raffermo ovviamente. Il povero sfilatino avanzato viene riportato in vita come base per il sugo, con l’aggiunta di olio, acciughe e pecorino. La sua resurrezione croccante e sfiziosa dà alla pasta una marcia in più.
Fraguni
Quelle dell’Esselunga avranno pure un certo appeal, ma vuoi mettere con le focaccine ripiene di Pasqua? Per tradizione il giovedì e venerdì santo i forni dell’entroterra calabro sono a pieno regime di fraguni in vista della domenica clou della cristianità. Per la precisione i fraguni hanno delle focaccine principalmente l’involucro, a base di pasta di pane. Tutto il resto, dall’aspetto al ripieno di patate e formaggio (ma anche uovo, erbette e soppressata, oppure dolci con ricotta e zucchero), li fa assomigliare più a mini quiche dorate. Perfetti insomma per le scampagnate di Pasquetta, pioggia permettendo.
Pesce spada alla ghiotta
Se Scilla e Cariddi facevano a gara a far naufragare le navi sullo Stretto, Reggio Calabria e Messina si contendono il primato gastronomico di questa ricetta. Per adesso pare vinca la Calabria, visto che ne ha ottenuto l’inserimento nell’elenco dei prodotti agroalimentari tradizionali redatto dal Mipaaf. Il pesce spada alla ghiotta anticipa con il suo nome quello che possiamo aspettarci da questo piatto: un secondo di pesce saporito, condito da un delizioso intingolo di pomodoro, capperi e olive.
Stoccafisso alla mammolese
Paese che vai, stoccafisso che trovi. All’anconetana, alla riese, alla ligure: l’enciclopedia del merluzzo essiccato (senza sale, quello è baccalà!) oggi ci porta a Mammola, provincia di Reggio Calabria. Lo stoccafisso alla mammolese è un Prodotto Agroalimentare Tradizionale che ha sfamato generazioni di contadini e braccianti, meno i pescatori che potevano permettersi il lusso del pesce fresco. Lo stoccafisso aveva tutti gli attributi della pausa pranzo economica e nutriente: lunga conservazione, basso prezzo, alto valore energetico. Con l’aggiunta dei prodotti freschi dell’orto come pomodori, patate e peperoni è diventato anche una vera delizia.
Vrasciuli
Polpette fritte di carne e melanzane. C’è davvero bisogno di aggiungere altro? Forse la lista degli errori da non fare. Di certo non ne hanno bisogno le nonne calabresi che friggono, brasano e infornano senza pietà. Voi non preoccupatevi, tanto sarete troppo presi a divorarne una dopo l’altra.
Mish n’undire
Le comunità arbëreshë di origine albanese sono una delle grandi ricchezze culturali e linguistiche della Calabria. Ciò vale anche in campo culinario, similmente a quanto accade per i piatti tipici lucani. In questo caso siamo sparsi in più di trenta comuni dell’entroterra fra Crotone e Cosenza con una cucina a prevalenza di carne e prodotti della terra. I mish n’undire fanno ampiamente parte della categoria: succulente braciole di maiale fritte conservate nello strutto. Non lo spezza fame light insomma.
Quella nello strutto è un’antica tecnica di conservazione che permette di utilizzare tutte le parti del maiale. Le braciole sottili, in genere da suino nero alimentato a ghiande, mele e fichi, vengono aromatizzate con aglio e prezzemolo e fritte in olio evo. Una volta raffreddare vengono poste in vasi di coccio e foderate con lo strutto. Così ammorbidite sono ideali per condire la pasta o ravvivate come secondo piatto. Buone sì, da consumare decisamente con moderazione.
Pipi chini
Se pensate che passando alle verdure la situazione si faccia più leggera, beh, vi sbagliate di grosso. I peperoni ripieni di Reggio non sono affatto un contorno. Certo, potrebbe benissimo essere un piatto unico, ma niente illusioni: siamo pur sempre in Calabria dove il pasto non è tale senza almeno quattro portate. Anche qui la sostanza varia in base al gusto della nonna di turno. La versione base prevede pangrattato, uova, formaggio e prezzemolo, la premium aggiunge a piacimento macinato di maiale, mortadella, provola, prosciutto e il cielo sa cos’altro. In ogni caso non c’è niente da discutere, la nonna calabrese dirà sempre “e mancia!!”
Gianfuttiri
Nome curioso per un classico della cucina calabrese, la peperonata. Trionfo di verdure coloratissime che fa venire l’acquolina in bocca solo a guardarlo, è un intermezzo temporaneo tra una portata di carne e l’altra. Variazioni sul tema sono peperoni e patate, peperoni e melanzane sott’olio, peperoni ammollicati con pecorino e pangrattato.
Liquirizia
L’oro nero della Calabria si chiama liquirizia. Questa radice balsamica ci sta tutta come digestivo naturale dopo cotanta piccantezza. La Glychirrhiza glabra viene coltivata sulle fasce costiere fin dal Seicento, e a ben vedere. Per chi non lo sapesse infatti la liquirizia è, al pari di molte leguminose, una pianta azoto-fissatrice in grado di migliorare le condizioni di fertilità del terreno. Viene raccolta tutto l’anno e, a seconda del prodotto, può essere essiccata o trattata con acqua per estrarne il succo. La Liquirizia di Calabria DOP viene commercializzata nelle tipologie radice fresca, radice secca ed estratto di radice. Ha sapore dolce, aromatico, intenso e persistente. Da essa si ricavano infiniti tipi di caramelle pure e/o aromatizzate, gelato, biscotti e liquori. Una chicca, anzi bon bon assolutamente da non perdere.
Turdilli
Si potrebbe confonderli con struffoli napoletani e cicerchiata marchigiana. Del resto anche i turdilli sono palline appiccicose fritte tipiche di Natale e Carnevale. La differenza però sta nell’ingrediente chiave: vino cotto, ovvero il il mix di uva e spezie compagno fedele di molte preparazioni dolci tipiche calabresi. Così i turdilli diventano semplicemente speciali. L’impasto a base di vino rosso, olio, zucchero e farina viene diviso in piccole sfere e immerso nel vino o mosto cotto. L’ultima inzuppata spetta al caffè (o ancora al vino per la botta finale della siesta post pranzo garantita).
Cuzzupa
Metafora della vita, specialmente quella di coppia, la cuzzupa è il tradizionale dolce di Pasqua che, attraverso le sue caratteristiche estetiche, comunica una serie di informazioni a chi lo riceve in dono. In particolare viene utilizzato dalle suocere che, a seconda del numero di uova intere che decidono di incastonare nell’impasto, mandano messaggi subliminali ai futuri generi. Da qui il detto “Cu’ nova rinnova, cu’ setta s’assetta”, ovvero nove uova rinnovano il fidanzamento, sette annunciano il matrimonio imminente. Insomma, se non avete accesso alla messaggistica istantanea, preparate una cuzzupa.
Cuddurieddri
Cuddrurieddri, cuddureddi, cullurielli, cuddruriaddri. Nessuno apparentemente riesce a mettersi d’accordo sulla corretta grafia dei cuddurieddri: poco male, in fondo conta la sostanza e a quello ci pensiamo noi. Queste ciambelle fritte di pasta lievitata con patate simili alle graffe napoletane sono tipiche del periodo natalizio, in particolare dell’Immacolata. Il nome, tanto per trovarci la quadra, sembrerebbe derivare dal greco collura o corona. Questo perché in passato pastori e viandanti usavano infilare le ciambelle su bastoni e braccia per facilitarne il trasporto. Oggi, col sacchetto di carta e il tovagliolo per non inondarci di zucchero, siamo molto meno temerari ma ehi, va bene così.
Scaudet
Altro giro altra ciambella, stavolta in versione arbëreshë. Nella valle del Crati in provincia di Cosenza per dolce ci sono gli scaudet, ciambelline fritte con farina di castagne. Si impastano con farina di grano duro, acqua e uova, vengono bollite per qualche minuto e poi immerse nell’olio. Come tutti i dolci con castagne la consistenza è morbida e friabile, il gusto dolciastro senza essere stucchevole. Anzi volendo potreste aggiungere sale e rosmarino e creare un nuovo tipo di tarallo.
Pitta ‘mpigliata
Se il lieto fine prevede sempre un matrimonio, noi chiudiamo il nostro elenco culinario con la pitta ‘mpigliata della provincia di Cosenza. Nata come dolce nuziale nel paesino di San Giovanni in Fiore, questa sfoglia attorcigliata riccamente speziata e ripiena di frutta secca è oggi una presenza fissa sulle tavole natalizie. C’è un posto speciale per lei a Catanzaro dove prende il nome di pitta ‘nchiusa a forma di rosa schiacciata. Appare sempre quando c’è qualcosa da celebrare: in questo caso, l’enorme tesoro che è la cucina tipica calabrese.