Proprio vero che la storia cambia, anche se la tendenza è sempre quella di considerare il presente come un eterno passato e anche un eterno, immutabile futuro. Qui in Italia, questo credo è particolarmente ancorato nel pensiero comune… che è piuttosto presuntuoso e assolutista. Facciamo un esempio pratico: la pizza. Non c’è nulla di più italiano e rappresentativo di lei, nulla che scateni più litigate tra il permaloso e l’odio, nulla che ci renda più orgogliosi, nulla che ci faccia gonfiare di più il petto. Ma se dicessimo che fino a non molto tempo fa non era cosa gradita, e addirittura era odiata dai napoletani stessi?
A scatenare il putiferio non è l’immaginazione della sottoscritta bensì, ancora una volta, un testo tanto profano quanto serio ovvero “La cucina italiana non esiste” di Alberto Grandi e Daniele Soffiati. Gli autori, nonché ideatori di DOI (il podcast “Denominazione di Origine Inventata“, che è a sua volta un omonimo libro di Mondadori) mirano a smontare credo e informazioni sbagliate sul cibo e le ricette tradizionali, oggi nella bocca di tutti e sulla bocca di tutti coloro che vogliono arricchirsi. La pizza è uno di questi. Ora, chi fa pizza per professione non è più solamente un pizzaiolo bensì un Maestro, un Accademico (quante “accademie” del cibo ci sono!), un detentore di potere sociale: sì perché la pizza è al contempo ferocemente democratica e sempre più gentrificata, con un Sorbillo VS Briatore a rappresentare i due estremi.
Una Napoli che fino agli anni ’70 odiava la pizza
Nel 1973 Napoli aveva il tasso di mortalità infantile più alto d’Europa: ecco come inizia uno dei paragrafi più provocatori de “La cucina italiana non esiste” (pag 98). Significa che epidemie come il colera e lo stato gravissimo in cui il capoluogo campano verteva rendevano la città meta da evitare, per i turisti ma anche per gli stessi connazionali. “Per fare un esempio” – si legge nel libro – “in quel 1973 persino alcune squadre di calcio di serie A si rifiutarono di giocare a Napoli, perdendo per questo le rispettive partite a tavolino e prendendosi pure un punto di penalizzazione in classifica“. Insomma la pizza era l’ultimo dei pensieri, per i napoletani, mentre negli Stati Uniti le pizzerie proliferavano e si diffondevano a macchia d’olio.
Questo disinteresse nei confronti del disco lievitato, tuttavia, non era temporaneo dato il decennio difficile: era frutto di un (dis)gusto ben radicato nel passato, da parte degli italiani. Tant’è che a cavallo tra Ottocento e Novecento la pizza era povera, poco o affatto rappresentativa, simbolo di una civiltà arretrata e mal vista in quanto i pizzaioli erano definiti spesso disonesti. Grandi e Soffiati citano la letteratura in merito.
Il disco di pasta che “si brucia ma non si cuoce”
Da Carlo Collodi a Dumas, passando per la napoletana Matilde Serao e concludendo con Gaetano Valeriani (pagine 100 e 101): sono solo esempi selezionati di autori che hanno descritto bene la terribile reputazione della pizza, in Italia, all’estero e in Napoli. Il padre di Pinocchio ne scrisse così: “Quel nero del pane abbrustolito, quel bianchiccio dell’aglio e dell’alice, quel giallo-verdacchio dell’olio e delle erbucce soffritte e quei pezzetti rossi qua e là di pomidoro danno alla pizza un’aria di sudiciume complicato che sta benissimo in armonia con quello del venditore”.
La scrittrice e giornalista Matilde Serao nel 1884 pubblicò Il ventre di Napoli, romanzo che descrive anche la pizza: “Il pizzaiuolo che ha bottega, nella notte, fa un gran numero di queste schiacciate rotonde, di una pasta densa, che si brucia, ma non si cuoce, cariche di pomidori quasi crudo, di aglio, di pepe, di origano; sovra un banchetto ambulante in qualche angolo della strada, che si gelano al freddo, che s’ingialliscono al sole, mangiate dalle mosche“. Il partenopeo Gaetano Valeriani è colui che più ha infierito sulla pizza: “Estremamente indigeste. Sono antichissime tra noi le pizze, ma meglio non fossero mai nate!”. Oltre alla nomea della pizza, tutto ciò dimostra anche quanto fosse diversa da quella nell’odierno immaginario collettivo e per cui ci scanniamo su quisquilie come la varietà di pomodoro o i gradi di lievitazione.
La pizza Margherita, un’operazione mediatica
Indovinate? La nascita della pizza Margherita altro non è che una vera e propria “operazione mediatica” concomitante all’esigenza di risanamento di Napoli dopo l’epidemia di colera del 1884. A inaugurare i lavori, nel 1889, furono Re Umberto I e la Regina Margherita, con un proposito volto a “infondere lo spirito nazionale in una popolazione che ne sembrava totalmente immune“. Pensate, ragionandoci bene, a quanto profondamente fossero diverse le cose rispetto ad oggi: del patriottismo e dell’orgoglio nazionale con cui ci vestiamo oggi, centocinquanta anni fa non v’era traccia alcuna.
Gli autori proseguono: “dare la notizia che la regina mangiava anche lei il piatto simbolo della disperazione partenopea era il messaggio più empatico che si potesse passare. l’obiettivo era comunicare che la regina condivideva i sacrifici del popolo, e non si asteneva a chiedere a un pizzaiolo ‘le pizze come siete solito fare per il popolo di Napoli’, testuali parole della monarca“. I fondatori di DOI spiegano come il documento dell’11 giugno 1889 con il quale il pizzaiolo Esposito è ringraziato per le pizze preparate alla Regina Margherita sia un falso: è un “apocrifo realizzato negli anni Trenta… del Novecento“. Insomma i fatti ci sono, più o meno, ma romanzati con tanto marketing.
Lo stesso di oggi. Eppure, ormai ci sono le prove: la pizza sovrana non esiste, come concetto. O meglio, è una regola italica non solo creata ad hoc dagli italiani stessi, non solo recentissima, ma che parte da presupposti letteralmente opposti. E siamo giunti al presente, periodo storico in cui l'”ansia da certificazione delle ricette” ha raggiunto l’apice, mostrando la dura faccia di quel bisogno di affermazione che solamente un’endemica insicurezza veicola.