Dolcetto o scherzetto? Che trashata ameriggana. L’origine di questa usanza tipica di Halloween, che lega i morti al cibo, in realtà è antichissima: probabilmente risale già ad epoca pre-cristiana, ma sicuramente dal Medioevo arrivano testimonianze di gruppi di giovani che giravano di notte impersonando i defunti, chiedendo da mangiare e minacciando rappresaglie.
Ve lo ricordate vero, quando da piccoli festeggiavamo Halloween andando in giro a fare dolcetto scherzetto? Noo? No. E certo, perché quando eravamo piccoli noi, noi che ci avviciniamo alla mezza età intendo, Halloween non c’era, c’era il ponte dei morti, che tutt’al più saltavi un giorno di scuola, e per il resto erano noiosissime visite nei cimiteri, per andare a trovare parenti che non avevamo mai conosciuto da vivi, e rimediare qualche caldarrosta di consolazione.
Solo di recente abbiamo importato – ed ecco che a questa parola tutto incomincia a odorare di muffa da discorso tra vecchie zie – questa festa americana (che poi è di origine irlandese, ormai lo sanno tutti), questo culto pagano (ma magari! Anzi sarebbe un certificato di nobiltà), questa usanza consumistica (ok, mi arrendo).
Che il culto dei morti, tra il macabro e l’orgiastico, fosse di origine antichissima, addirittura pre-cristiana, si è sempre sospettato: quando le giornate iniziano ad accorciarsi, le ombre sbucano dal sottosuolo, e in qualche modo vanno placate… Con preghiere? Ma figurati! Un bel bicchiere di vino e qualcosa di speciale da mangiare, ecco quello che ci vuole. Testimonianze più recenti, ma comunque risalenti al Medioevo, ci raccontano di usanze che se non sono dolcetto-scherzetto, poco ci manca. Si possono ritrovare nelle ricerche di Carlo Ginzburg, grandissimo storico, sui documenti dell’inquisizione che parlano del sabba: concetto in gran parte costruito dagli accusatori nei processi, ma che ha un nocciolo di verità, contenuto in tutti gli elementi spontanei e originali che emergono dalle testimonianze degli accusati. Questi hanno in comune, quasi sempre, due elementi: le processioni dei morti e le battaglie per la fertilità. Ecco cosa scrive Ginzburg in Storia notturna. Una decifrazione del sabba:
“Con la fine della persecuzione, il sabba si dissolse. Negato come evento reale, relegato in un passato non più minaccioso, esso alimentò l’immaginazione di pittori, di poeti, di filologi. Ma i miti antichissimi confluiti, per un tempo tutto sommato breve (tre secoli) in quello stereotipo composito, sono sopravvissuti alla sua scomparsa. Essi sono ancora attivi. L’esperienza inaccessibile che l’umanità ha espresso simbolicamente per millenni attraverso miti, favole, riti, estasi, rimane uno dei centri nascosti della nostra cultura, del nostro modo di stare al mondo. Anche il tentativo di conoscere il passato è un viaggio nel mondo dei morti.”
Il cibo in offerta agli dei
In moltissime religioni, quasi tutte, il cibo si lascia in offerta agli dèi, in modo più o meno simbolico: tra i due estremi dello sgozzamento di un caprone sull’altare e l’elevazione dell’ostia, ci sono tutta una serie di possibilità intermedie). In moltissime religioni, il cibo accompagna l’ultimo viaggio dei morti (vedete un po’ l’antico Egitto) o costituisce il legame tra vivi e morti nel giorno del loro ciclico, annuale ritorno (dia de los muertos in Messico). Non c’è quindi da stupirsi che dall’antichità al Medioevo siano trasmigrati culti simili, che spesso si riferivano a divinità o figure femminili, come Diana, Epona o generiche Matres o Matronae. Burcardo di Worms, attorno al 1000, parla di tre divinità a cui la gente lasciava, in determinate notti, del cibo con tre coltelli, come un riferimento alle tre Parche.
Altre volte sono dei gruppi di persone, che incarnano i defunti o gli spiriti: delle specie di società che praticano culti estatici. I loro seguaci sperimentano vere e proprie trance in cui dicono di sentire voci (le voci dei morti) e di essere portati da loro a compiere azioni varie, come battaglie tra il bene e il male. In Friuli, tra 1500 e 1600, a combattere queste battaglie erano i “benandanti”, che con mazze di finocchio cercano di sconfiggere i “malandanti”, identificati in anime vagabonde, morti senza requie, che insidiano la fertilità dei campi.
Dono o misfatto?
Quindi figure benefiche, ma che comunque per il loro essere legate a un qualcosa di misterioso, per il loro commercio con l’altro mondo, sono percepite dalla comunità con sentimenti ambivalenti. I benandanti sono “scelti”, e quindi sono di solito persone con caratteristiche fisiche particolari, che le rendono in qualche modo diverse. Ovunque in Europa esistevano rituali in cui gruppi di giovani mascherati, che si identificano con i morti, giravano per il paese terrorizzando tutti, chiedendo doni e, nel caso negativo, facendo scherzi o piccoli crimini. Un’atmosfera di festa che è sempre sul crinale della violenza, cibo (e vino) come modo di frenare l’impulso distruttivo dei morti.
Nell’anno ‘400 Asterio, vescovo di Amasea in Cappadocia, pronuncia una predica contro le festività romane relative alle calende di gennaio, durante le quali era in uso scambiarsi regali: alcuni gruppi di persone giravano di porta in porta, gridando e facendo casino, chiedendo agli abitanti denaro in cambio di benedizioni che esaltavano la prosperità; se ne andavano solo quando le richieste venivano soddisfatte. Tra loro c’erano anche bambini, che normalmente distribuivano mele in cambio del doppio del loro valore in denaro. Quello che accade la notte di Halloween è una rappresentazione analoga: è una questua che fa nascere sentimenti ambivalenti nei confronti dei questuanti (paura, senso di colpa, fastidio…). Gli stessi atteggiamenti ambivalenti che si avevano nei confronti dei morti.
Quindi quando domani accompagnate i vostri figli in giro per la questua di caramelle, o dall’altro lato, aprite la porta ai figli altrui, se vi viene un brivido di paura non lo reprimete con la scusa dell’americanata (che bello, era dagli anni ’90 che non usavo questa parola). Piuttosto, beveteci su un bel bicchiere di vin brulé: alla vostra salute, e a quella di coloro che non ci sono più.
[Fonte: Carlo Ginzburg, Storia notturna. Una decifrazione del sabba, Torino: Einaudi (2005)]