Niente dice “pasta” come Napoli, o ancor più Gragnano: ma che origini ha il prodotto italiano per eccellenza, e come è arrivato nella sua patria d’elezione? Oggi analizziamo i formati di pasta campani, le 13 tipologie più diffuse in particolare.
La pasta di grano duro ha remote origini mediterranee (era diffusa in varie forme e denominazioni già in Magna Grecia, e successivamente presso le popolazioni italiche d’Etruria e nella Roma antica) e si evolve in una forma pressoché identica a quella che conosciamo oggi in ambito medievale siculo-moresco.
Le innovazioni apportate alla lavorazione del laganum romano dallo know how arabo, già tra il 950 e il 1100 consentiranno l’essiccazione del “cibo di farina in forma di fili”, la triyah, prodotta in Sicilia ed esportata, secondo il geografo Al Idrisi, “in tutte le parti, in Calabria e in altri Paesi musulmani e cristiani, spedendo moltissimi carichi di navi”.
Il Rinascimento vedrà questo tipo di prodotto godere di grande diffusione in tutta la Penisola e di un proliferare di siti produttivi: tra le aree più ricettive, tanto per la produzione che per il consumo di maccaroni, ci sarà la Campania; ove prospere condizioni ambientali incontreranno una propensione alla fruizione corroborata nei secoli, talvolta, da occorrenze anche infelici che ne propizieranno l’incremento (è solito far coincidere il momento della “consacrazione” dei maccheroni come piatto diffuso tra i ceti popolari del Regno di Napoli, ad esempio, con la grave carestia del 1764; che rese inaccessibili alla quasi totalità della popolazione molti alimenti freschi).
Gragnano, in particolare, zona di venti tiepidi e mulini, verrà incoronata “Città della pasta” il 12 Luglio del 1845; data in cui Ferdinando II di Borbone concederà ai pastai gragnanesi, per regio decreto, la licenza esclusiva di fornitura delle paste lunghe di Corte.
Passiamo dunque alla lista dei formati di pasta campani, i 13 tipici che abbiamo individuato tra Napoli, Gragnano e la Campania in genere, attraverso i quali si declina l’impasto di semole gramolate ed acqua, essiccati inizialmente al sole e al vento, poi in camere statiche a temperatura controllata.
Ziti
Cominciamo quest’elenco scavalcando qualsiasi pretesa di ordine alfabetico: partiremo con la “zeta”, perché sono gli ziti il formato che forse più di ogni altro rappresenta la Campania reale. Il nome, di per sé, evoca atmosfere di festa: gli “ziti”, in senso proprio, altro non sono che i fidanzati o promessi sposi; a significare che il servizio di questo formato, riccamente condito, era imprescindibile per celebrare le nozze in maniera propizia.
Certo, non sono usatissimi al di fuori dei confini della Regione, non godono della suggestiva grancassa mediatica dei paccheri, né dell’universalità dei vermicelli: eppure sono proprio loro, spezzati, a farsi con le loro pareti lisce e la rigidità della struttura compagni ideali dei due più celebri sughi della tradizione napoletana; la genovese e, naturalmente, o’ rraù. Bonus: da provare assolutamente sono gli ziti lardiati, conditi con un sugo a base di pomodoro al basilico, cipolle, pecorino, e naturalmente lardo.
Candele
“Sorelle maggiori” degli ziti, sono un formato impegnativo da lavorare, che però trattato correttamente si presta all’ottenimento di risultati inequiparabili in termini di texture e giochi di intreccio con i sughi.
Si cuociono spezzate a mano (anche se è possibile tentare di ignorare la tradizione, e sperimentare una cottura “intera” adagiandole, ad esempio, in una pesciera) e sono ideali per le più ricche preparazioni delle feste, ultimate al forno e gratinate. Contendono la palma ai più smilzi fratellini per l’abbinamento migliore alla genovese.
Paccheri
Sono tra i formati più immediatamente identificabili come campani, se non direttamente come napoletani: un tempo segreto ben custodito della Regione, diventano ad un certo punto, direi spannometricamente durante gli anni Novanta, “nuovo” formato di riferimento dei gourmand sgamati di tutta Italia, impugnati dai ristoranti che contano e dalla critica. Da allora, manterranno una certa allure esotica; che li fa percepire, indipendentemente dall’effettiva qualità della realizzazione, come un formato ultrapremium al cuoco casalingo in cerca di qualcosa di diverso.
Il loro nome deriva da pacca, in lingua napoletana, “lo schiaffo”: ciò è dovuto probabilmente allo sciàff che emettono tuffandosi nel sugo. A riprova dell’etimo, il fatto che siano anche conosciuti come schiaffoni.
Rimanga inteso che la fama di questo formato non dipende esclusivamente dalla fortuna comunicativa di cui hanno goduto, ma può fare affidamento su una straordinaria versatilità: si prestano infatti all’abbinamento con una straordinaria varietà di sughi, grazie all’accostamento di tre doti strutturali importanti, la capacità di trattenere il condimento grazie alla superficie porosa, la sfoglia liscia che fornisce una certa setosità al palato, la possibilità di nascondere, ruffianamente, elementi solidi del sugo d’accompagnamento tra le pieghe adagiate mollemente.
Ve li raccomando con patate e cozze, con un semplice scarpariello, oppure imbuttunati di ricotta e salame, fritti, a mo’ di finger food.
Calamarata
Sorta di paccheri tagliati corti, questi anelli si prestano perfettamente ad essere “confusi” con i pezzi di mollusco da cui prendono, per evidente analogia visiva, il nome. È così pertanto che vi raccomandiamo di provarli: soffritto d’aglio, anelli di calamaro scottati, schiacciata di pomodori del piennolo, sfumata di vino bianco, un tocco di peperoncino ed abbondante prezzemolo!
Tubettoni
A metà tra i tubetti/ditali e la mezza manica, questi cilindri lisci o rigati sono poco diffusi fuori dai confini campani ma sono una vera e propria risorsa universale per gli abitanti della regione: estremamente versatili, si prestano tanto a condimenti “in asciutto” anche molto sciuè sciuè che all’impiego in minestre dense, come sono quelle tipiche di Napoli e del circondario. Perfetti con la più guduriosa delle past’e ffasule, con i borlotti accompagnati da un soffritto di pancetta e cotiche, e servita rigorosamente “azzeccata”.
Fusilli lunghi lavorati a mano di Gragnano
Formato tradizionale di Gragnano, comportano una lunga e laboriosa preparazione manuale (che spesso ne fa, diremmo giustamente considerata l’intensità del lavoro umano richiesto rispetto alle controparti prodotte a macchina, lievitare i costi).
Vengono prodotti facendo scorrere una lunga fettuccia di pasta attorno a un ferretto, con un movimento di scorrimento di tutto l’avambraccio.
Lunghi in media 40-60 cm, si presentano come “viti” dalla sfoglia spessa circa 3 mm e dall’aspetto ruvido: bisognosi di lunghissima cottura, sanno assicurare un supporto unico e inconfondibile capace di cambiare il volto anche del più semplice dei sughi.
Conchiglioni
Formato candidato al titolo di Regina delle Paste Ripiene: questo formato riesce a incamerare una quantità di farcia invidiabile, per preparazioni al forno a quattro livelli di golosità. Immaginate un’imbottitura morbida e umida incontrare l’arricciatura della sfoglia callosa che la contiene, il comfort di un sugo ricco di pomodoro San Marzano, mozzarella e basilico ed infine la golosità della gratinatura che offre una porzione di conchiglioni ricotta e spinaci alla sorrentina!
Radiatori
Appartenenti alla famiglia dei formati ispirati ad elementi meccanici nati nell’euforia tecnologica dei primi del Novecento, questi strani cilindri percorsi nel senso della lunghezza da una serie di “alette” emicicliche hanno avuto una certa fortuna, ricavandosi una nicchia di estimatori. Vere e proprie spugne da sugo, è raccomandato servirli con condimenti che presentino una certa grana che resista all’assorbimento: provateli, per esempio, con un ragù di salsiccia.
Bombardoni
Quando il pacchero incontra la penna: lisci o rigati, questi imponenti tubi pizzuti si prestano a sughi di struttura, bianchi o rossi, sia di carne che di dadolate di pesce. Idee per il condimento potrebbero essere un intingolo a base di pesce spada e finocchietto, o un ricco sugo di maiale aromatizzato con semi di finocchio ed arricchito con Provolone del Monaco a cubetti.
Lasagna riccia
Dimenticate la sfoglia sottile all’uovo di tradizione emiliana: la lasagna, a Napoli, si prepara tradizionalmente con la pasta di semola; e precisamente con questa fettuccia larga circa 5cm dai bordi arricciati. Dopo averle sbollentate, cuocete in forno a strati, condendo con raù napoletano, polpettine, fiordilatte, ricotta, uova sode.
Pasta “ammiscata”
La pasta ammiscata è uno dei tanti esempi di tradizione nata dalla cucina di recupero, riciclo degli scarti diventato cibo tipico. Nasce dall’usanza delle casalinghe campane di approntare, in casa, un barattolo nel quale venissero depositate le rimanenze di tutti i pacchi di pasta già aperti; sistemati in modo da avere tutti più o meno le stesse dimensioni: così gli spaghetti e le fettucce venivano sminuzzati a mano, ed incontravano i ditali, qualche fusillo, gli ziti, le penne… Quando poi si presentava l’occasione di preparare un primo per il quale il mantenimento del punto di cottura non fosse fondamentale come per una pastasciutta, cioè per esempio una minestra densa, la massaia dava fondo alle riserve e utilizzava la mistura di rimasugli per dare corpo alla pietanza.
L’usanza di impiegare la pasta mista per le minestre, in Campania, è talmente inveterata che i pastifici hanno cominciato a produrre pacchi di pasta ammiscata premiscelati! E questo formato “corale”, usato nel piatto giusto, sa essere davvero un’esperienza. Come provarlo, allora? Ma ovviamente nella pasta e patate, “tirata” all’estremo e finita con qualche cubetto di provola affumicata, magari dei monti Lattari.
Reginelle o mafaldine
Reginelle, reginette, mafalde, mafaldine: tutti i nomi di questo formato riportano a un evento storico preciso; la nascita della principessa Mafalda di Savoia, figlia di re Vittorio Emanuele III, che i pastai di Gragnano vollero omaggiare. Era il 1902. Nate come versione ridimensionata della lasagna napoletana e pensata per consumo in asciutto anziché per preparazioni al forno, possono rivelarsi ostiche da condire e mangiare: se le consumerete intere, vanno bene con ragù vegetali o di selvaggina; in alternativa possono dare un guizzo in più a una pasta e ceci.
Vermicelli o spaghettoni
Re indiscussi del mondo della pasta, sugli spaghetti in genere (e nello specifico di questo caso, sulle versioni spesse e mordibili di Gragnano, autentico emblema della produzione pastaia locale nella loro versione “a ferro di cavallo”, essiccata appesa) si sono versati fiumi d’inchiostro. Cosa dire se non… Godeteveli, conditi pressoché in qualsiasi modo, al pomodoro, a vongole o anche “nudi”, appena scolati, con un filo d’olio buono? Ah, sì: provateli con una delle più guduriose ricette tipiche campane, quella degli spaghetti alla Nerano (zucchine fritte, basilico e una mantecatura cremosa a base di provolone del Monaco e altri formaggi).