Se ormai il foraging modaiolo ha trasformato anche il più grigio abitante della metropoli in un mini Redzepi, conosciamo un luogo che si pone su un altro livello (con tutto il rispetto per i vostri balconi aromatici), capace di farsi Bignami di flora selvatica, restituendoci la più esplicativa immagine possibile sulle erbe di laguna.
Il merito è del terreno salmastro, che dona sapidità marina a piante, foglie e fiori e che permette di utilizzare anche erbe non commestibili, come il limonium, per farne quella delizia che è il miele di barena.
Siamo su un litorale di 15 chilometri all’incirca. A distogliere per un momento lo sguardo da Venezia, allargando la prospettiva e andando verso est, superando la parte della Laguna nord (e le isole di Murano, Burano, Torcello, Vignole e Sant’Erasmo) si arriva ad una lunga penisola: Cavallino Treporti.
Qui il rapporto tra terra e acqua, altrove manicheo, diventa un viluppo labirintico, in cui la terra si sdoppia e si fa barena da una parte e sabbia dall’altra e l’acqua cambia tre maschere: quella salmastra della laguna e dei suoi canali, quella salata dell’Adriatico e quella dolce dei fiumi Sile, – che dopo un percorso di anse, in parte naturali in parte frutto di deviazioni, sfocia nel mare – e Piave, che arriva più dritto e solido, carico di storia.
A Cavallino Treporti si viene per le vacanze estive: chiedetelo soprattutto ai tedeschi, ai francesi e agli olandesi, che cominciano ad affollare i camping e le pinete già da Pentecoste. Meno immediato è venirci durante il resto dell’anno ed è un vero peccato perché si scoprirebbe che qui ci sono aziende agricole che regalano prodotti unici (mai sentito parlare del pomodoro Nasone? E’ un ecotipo autoctono della varietà Cirio molto sodo e sapido, che raggiunge anche i 200 gr di peso) e che questa zona rappresenta uno dei punti di maggior concentrazione di erbe e piante selvatiche.
Per districarci tra nomi latini e foglie che altrimenti ad un primo sguardo avremmo catalogato semplicemente e vergognosamente come “erbacce”, abbiamo chiesto aiuto a Marco Bozzato che al Cavallino ha un’azienda agricola e che si muove tra terra e barena con una disinvoltura che gli fa riconoscere oltre una trentina di varietà in poche decine di metri. La passione per le erbe l’ha portato ad affiancare ai prodotti agricoli anche la coltivazione di piante e fiori facendolo diventare ben presto il riferimento per chef del calibro di Enrico Bartolini e Terry Giacomello e facendo viaggiare i suoi prodotti dai ristoranti veneziani stellati e non (Glam e Ridotto) fino a Milano e Roma (Retrobottega, per dire). In pochi metri di terra (e nelle sue serre) abbiamo raccolto, degustato, annusato ed assaggiato, distinguendo erbe commestibili e tossiche, fiori e boccioli. Il naso e la lingua ne sono usciti stravolti, presi a sberle, sedati.
Una volta riordinati i sensi, tuttavia, è stato possibile stendere questa breve guida alle erbe di laguna. Alcune si trovano ovviamente anche altrove (oltre ad alcune di quelle riportate nell’elenco, lungo la barena si trovano malva, alloro – la cui bacca più piccola di un’oliva e dal sapore estremamente concentrato, è commestibile – mora di rovo, dai cui germogli in primavera si ricava un pesto profumatissimo), altre solo qui. Quello che tuttavia le rende trasversalmente speciali è il sapore, che è amplificato e reso potente da un terreno unico.
Esploriamo dunque le erbe di laguna, attraverso questo territorio estremamente biodiverso, in tutte le loro varietà e suggerendone, al meglio che sappiamo, gli usi in cucina.
Rucola Selvatica
Riconoscibile per i fiori gialli che da luglio in poi fanno la loro comparsa sulla sommità degli steli, la rucola selvatica è la versione dall’animo più grezzo e ruspante di quella coltivata. Le foglie sono più frastagliate rispetto a quelle più arrotondate della coltivata e, soprattutto, il sapore è decisamente più marcato e concentrato. Si trova lungo gli argini e ai bordi delle aree coltivate, si può raccogliere tutto l’anno e in cucina può essere trasformata in un pesto molto saporito.
Artemisia
Se dobbiamo certamente a Linneo il nome scientifico, sull’etimologia ci sono più dubbi: alcuni ricollegano il nome alla dea greca della caccia Artemide, altri lo legano al greco “artemes” che in greco significa “sano” riferendosi alle molte proprietà della pianta. Ed in effetti l’artemisia ha azione antispastica, sedativa, antisettica. Tuttavia qui le proprietà medicamentose interessano fino ad un certo punto: le sue foglie di un bel verde intenso, lanceolate nella parte terminale, per il sapore amaro e aromatico vanno a braccetto con cibi grassi in particolare con la selvaggina. Ottima anche per infusi, gli amanti dei distillati ne conosceranno certamente la versione Artemisia absinthium, utilizzata per la preparazione dell’assenzio.
Pimpinella
Una pianta con il destino del nome, se è vero che l’etimologia ricondurrebbe al latino piper, cioè pepe. Qui il termine dev’essere inteso in un’accezione ampia che si riferisce alla capacità della pimpinella, conosciuta e apprezzata sin dall’antichità, di aromatizzare e dare carattere alla misticanza. Predilige terreni sabbiosi e si consuma soprattutto cruda: la pianta giovane, quella che si usa di più, ha un sapore di cetriolo mentre diventa troppo amara se vecchia. Per gli amanti dei nomi ecco quello scientifico: sanguisorba. Ne esistono due varietà, la minor (quella di cui vi abbiamo parlato) e la maggiore (officinalis), dal fiore rosso.
Plantago
Ossia piantaggine. E’ una pianta comune e riconoscibile per la forma delle foglie, allungate e con i bordi interi. Ne esistono 3 varietà: lanceolata, altissima ed argentea distinguibili per la foglia (fine, doppia o quadrupla). Anche in questo caso, si mangia come una sorta di radicchio, cruda in insalate miste. Si può mangiare anche cotta: in questo caso il sapore cambia e assomiglia molto a quello dei funghi champignon.
Tarassaco
Riconoscibilissimo per i fiori gialli ma soprattutto per il “soffione”, un ciuffo di peli bianchi sistemato sulla sommità dei gambi, il tarassaco (noto anche come dente di leone) è una pianta comune, dalle proprietà digestive, diuretiche e regolatrici della bile. Della pianta si mangia praticamente tutto: le foglie, oblunghe e lanceolate e lobate, si consumano sia crude, in insalata, sia cotte, stufate in padella o utilizzate per frittate, come ripieno per torte salate e pasta fresca, o come base per risotti. La radice, infine, viene usata per fare infusi.
Portulaca di mare
E’ chiamata anche porcellana, erba grassa o erba sale. Ed in effetti gli ultimi due appellativi sintetizzano perfettamente le caratteristiche della pianta: le foglie carnose, croccanti, succose, dalla sommità arrotondata e di un colore verde tenue, ricordano quelle delle piante grasse, mentre il sapore è acidulo e con una nota mordente. La versione “lagunare” della portulaca – quella che abbiamo assaggiato noi – è sapidissima e consente di capire meglio di molte spiegazioni geografiche e botaniche come il terreno salato della laguna modifica i sapori di piante e ortaggi. Si mangia cruda, in insalata, magari accostata ai pomodori; cotta, può essere ripassata in padella o aggiunta alle frittate.
Veccia
In passato se ne usavano i semi macinati per fare il pane al posto del grano: è un’erba spontanea utilizzata per il foraggio e per dare azoto alla terra. Le foglie si raccolgono in primavera e si consumano crude, in insalata.
Carota selvatica
Inconfondibile per i fiorellini bianchi a ombrellino, elegantissimi, se ne mangiano sia la radice che le foglie. La radice, a differenza della carota coltivata, non è arancione ma giallo-biancastra: tagliata a pezzi, si fa bollire e si può aggiungere alle minestre o condire con olio, sale e limone. Il sapore è un esponenziale di quella coltivata. Le foglie, riconoscibili per una nervatura centrale, si mangiano in insalata.
Cicoria selvatica
I fiorellini blu indaco sono il suo punto forte, non solo perché la rendono riconoscibile ma perché possono essere aggiunti ai piatti, non solo come guarnizione ma anche, eduli, come ingrediente. La raccolta delle foglie ad uso alimentare va da marzo a novembre con una pausa estiva durante il momento della fioritura. Dal sapore estremamente amaro, le foglie si consumano crude nelle insalate miste, con altre erbe di campo (radicchio e tarassaco, per esempio) o cotte, esattamente come gli spinaci e usate come ripieno per torte salate, come contorno, in minestre di verdure o risotti, mescolandone il sapore amarognolo con altre erbe più dolci.
Silene (vulgaris e alba)
Il nome, silene, farebbe riferimento alla forma a palloncino del fiore, dal colore bianco (di qui, alba). Anche se non siete esperti di piante non è possibile che non l’abbiate incrociata, da bambini: i fiori ribattezzati “schioppettini”, venivano infatti fatti scoppiare sul dorso della mano ottenendo un suono bello pieno. Se ne mangiano le foglie più piccole, in primavera, il cui sapore assomiglia a quello del pisello crudo: cotte, compongono minestre, arricchiscono frittate, risotti, pasta fresca. Si mangiano anche crude, in insalata, con altre verdure. Ne esistono più varietà, distinguibili per la foglia, più o meno pelosa.
Bocciolo di arnica
Nonostante l’arnica sia impiegata più per uso esterno, come anti infiammatorio e antitraumatico, che per uso alimentare (se ne fanno decotti, ma l’impiego in cucina è decisamente limitato), il bocciolo, messo in conserva, può essere utilizzato esattamente come un cappero.
Enula
Più nota per le sue proprietà bronco rilassanti ed antibiotiche, si può anche mangiare. Sapida e dal retrogusto amaro, ha fiori gialli e foglie seghettate.
Salicornia
Raccolta da metà aprile a metà giugno (poi legnifica con un filetto fibroso all’interno della foglia), è riconoscibile per la forma, tipicamente ramificata ma apparentemente senza foglie e carnosa (in foto due varietà, tra cui la suaeda). E’ forse la pianta che racconta meglio di altre la specificità dell’ecosistema lagunare: diffusa infatti prevalentemente su terreni sabbiosi e fangosi, ha un sapore sapido e marino che la rende peculiare ed in grado di diventare realmente un ingrediente. Il consiglio è di consumarla cruda, in salamoia o sbollentata in acqua, evitandone la raccolta quando è di colore rosso perché il sapore è sgradevole. E’ nota anche come asparago di mare. Il legame con la laguna è ancora più forte quando si scopre che la cenere era usata produzione del vetro soffiato di Murano, per abbassare il punto di fusione del materiale.
Bieta selvatica
E’ simile a quella coltivata, anche se le foglie sono più strette e lunghe, e con le venature più chiare che spiccano e leggermente pelose. Si consuma cruda, avendo l’accortezza di raccoglierla in primavera ed in autunno, evitando quindi i mesi troppo caldi e troppo freddi. Cresce nei terreni sabbiosi litoranei e sugli argini vicino al mare, ed è molto resistente alla salsedine. Le foglie si utilizzano in vari modi, lesse e poi saltate in padella oppure come ripieno.
Soncio (Sonchus tenerrimus)
Ha foglie lunghe e frastagliate con segmenti laterali lanceolati. Di consistenza molle, tendono ad appassire rapidamente se raccolte. Quella in foto è di colore rosso cupo. Si consuma cotto.
Grattalingua
Chiamata anche “costoline d’asino”, è una pianta perenne, dalla notevole variabilità. Comune a tutte le varietà è il lattice dolciastro e biancastro contenuto nelle foglie. La versione “marittima”, quella della laguna, si differenzia dalle altre per le foglie, estremamente carnose e pelose. Si mangia cotta da sole o miste con altre specie, in zuppe, frittate, torte salate o semplicemente lessata.
Erba stella
E’ un tipo di piantaggine che si raccoglie in primavera o ad inizio estate. E’ una pianta annuale riconoscibile per le foglie strette, lunghe e filiformi, profondamente divise e frastagliate, riunite a formare una rosetta aderente al suolo. Ricchissime di vitamine e di sali minerali, le foglie hanno un aroma leggermente pungente, si consumano crude da sole o miste ad altre insalate. L’erba stella raccolta nei posti di mare, in questo caso in laguna, ha foglie più croccanti.
Asparago selvatico
Se l’asparago è normalmente inconfondibile, anche nella versione selvatica, per il tipico turrione, in questo caso riuscire a riconoscerne i tratti nel cespuglio ritratto in foto, è stata un’impresa. La pianta è formata da un fusto principale fine e lungo che acquisisce man mano una consistenza legnosa da cui partono rametti laterali con piccole foglioline appuntite come spilli. Man mano che cresce, il fusto si intreccia su se stesso fino a trasformarsi appunto in cespuglio pungente. Da agosto a settembre sbocciano dei piccoli fiorellini gialli. Come la versione coltivata si raccoglie in primavera: il sapore però è diverso: forte e amarognolo.
Topinambur selvatico
Ormai sdoganato in creme e vellutate nella sua versione coltivata, merita di essere assaggiato anche nel suo volto più ruspante e vivace, qui ben rappresentato dai fiori gialli ed esuberanti che vedete. Cresce dove l’acqua ristagna e si mangia quando la pianta si secca completamente e perde i fiori. Il tubero è di dimensioni decisamente più contenute di quello coltivato e se ne differenzia per il colore rosa-rosso.
Porro selvatico
Versione mini di quello coltivato, ha un sapore che invece esplode in bocca e amplifica tutte le componenti. Le foglie sono lineari e denticolate, tuttavia la parte che si mangia è il bulbo, crudo in insalata o impiegato in zuppe e frittate.
Astro marino
I fiori, con petali lunghi e stretti, dipingono di viola e malva la laguna nei mesi di agosto-settembre. E’ una pianta tipica dei litorali e sebbene non sia commestibile, ve ne parliamo perché è una delle piante da cui si ricava il miele sia in versione millefiori che in quello di barena.
Dolcimele
Il nome ne svela la qualità: ha un sapore molto dolce, che lo rende perfettamente abbinabile con il tarassaco, e consumato crudo. Si raccoglie in primavera e ed è riconoscibile per le foglie, dentate e a forma di cuore.
Finocchio selvatico
Ama gli argini di pietra ed è per questo che è anche conosciuto con il nome di spaccasassi. Conosciuto fin dall’antichità, ha foglioline lanceolate e carnose. Ricco di vitamine, in passato era consumato spesso tra i marinai, per integrare la vitamina C altrimenti carente durate i lunghi viaggi in mare, prevenendo così lo scorbuto. Si raccoglie da primavera all’autunno e se ne mangiano le foglie e i germogli. Le foglie hanno un gusto sapido, per l’elevata presenza di sodio, e sapore misto tra finocchio, sedano e scorza di agrumi, con note leggermente piccanti. Si possono consumare sia crude, per arricchire insalate o per aromatizzare salse, piatti a base di pesce (soprattutto) e carne, sia cotte, sott’olio o sott’aceto.
Se la raccolta selvatica è alla portata di tutti (conoscenze permettendo, ovviamente) e si traduce in cucina in preparazioni casalinghe, per capire perché la misticanza assaggiata in un ristorante stellato si apre in un’esplosione di sapori e perché l’aggiunta di fiori e foglie non è solo una questione di gioco cromatico, fate visita alle serre di Marco: tra piantine di acetosa vena rossa, acetosa viola, senape selvatica, spinacio di malabar, geranio limone, ibisco commestibile, aptenia, levistico e crescione, vi renderete conto di come fiori e foglie siano veri e propri ingredienti e non solo vallette mute sul palcoscenico.
Santonego
Chiamato anche assenzio marino, fa parte della famiglia dell’Artemisia. Ha foglie di un verde molto intenso e fiorellini di colore azzurro e violetto che rendono unica la laguna. Cresce da primavera a fine estate poi va in secco. Deve essere raccolto entro metà luglio, altrimenti cambia consistenza, colore e profumo. La parte utilizzata sono le foglie, che sono impiegate per la realizzazione della grappa, il cui colore è esattamente quello del quadro di Cezanne.
[Immagini: Caterina Vianello, Alessia Ferrari Bravo]