I paesaggi mozzafiato si compensano con la buona aria di montagna, i soldi spesi per le vacanze si investono con le esperienze e le calorie perse con l’attività sportiva estiva o invernale (compreso lo struscio a Courmayeur, perché no) si recuperano con le prelibatezze della cucina valdostana. Una tradizione povera e nutriente fatta di cereali integrali, lunghe cotture e tanto, tantissimo latte, ora declinato in burro, ora in formaggio.
Oggi vi parliamo dei 16 piatti tipici della Valle d’Aosta da provare: dall’iconica polenta concia alla carbonade, dalle zuppe-non-zuppe come pèilà nèira e favò ai biscotti burrosi, su tutti tegole e torcetti. Per finire come si deve, con dolce al cucchiaio e caffè opportunamente corretto.
Polenta concia
Paesaggi innevati, vette stratosferiche, rifugi e piste da sci: la cartolina invernale della Valle d’Aosta titilla l’immaginazione dei turisti da settimana bianca e degli amanti dei piaceri della montagna. Che, per forza di cose, non possono prescindere da una serie di piatti tipici caldissimi, nutrienti e corroboranti, specialmente dopo una giornata in movimento a cavallo di sci o snowboard. Cosa c’è di meglio dunque di una bella porzione di polenta concia fumante per riscaldarsi e ricalibrare le energie? La ricetta tipica valdostana prevede farina di mais, acqua, fontina e burro, oltre al buon olio di gomito per rimestarli insieme nel paiolo e creare un mix denso e cremoso da pescare col cucchiaio.
Due precisazioni sulla polenta concia: diffidate da chi ne attesta le origini rinascimentali (e oltre, risalendo addirittura al Quattordicesimo secolo) mentre allo stesso tempo parla di ingredienti come se esistessero da sempre. Ricordate che il mais è stato “scoperto” insieme dall’America (est. 1492) e che ci volle parecchio tempo prima che attecchisse qui da noi e diventasse di uso comune. È più corretto affermare che le polente di una volta erano fatte di altri cereali (segale, miglio, grano saraceno, addirittura castagne) e che spesso sostituivano il “pane” quotidiano (pure il frumento non era proprio alla portata di tutti) insieme a brodo e qualche verdura cotta. Il formaggio magari meglio venderlo, almeno dal punto di vista del contadino. E poi, sempre a proposito di ricette, ricordiamo che di polente conce ne esistono per tutti i dialetti del Nord Italia (uncia, unscia, cunsa): forse la più famosa è la cunscia di Oropa a Biella che, oltre al suo Santuario, vede e provvede con la toma locale e il formaggio Maccagno per la sua grassa e ricca versione.
Insomma, è sempre il luogo e il momento per un piatto fumante di polenta, specialmente in Valle d’Aosta e se guadagnata a forza di su e giù sulle piste da sci. E per i non sportivi all’ascolto, tranquilli, vale anche il gatto delle nevi.
Carbonade
La sostanza sarà pur quella, tuttavia chiamare questo piatto “brasato al vino rosso” sarebbe davvero riduttivo. Del resto nella carbonade valdostana gli ingredienti ci sono tutti: carne (di manzo ma non solo), spezie dolci come chiodi di garofano e cannella, cottura lenta e prolungata e il vino rosso che –oltre a distinguerla dall’omonima carbonade flamande belga che però viene cotta nella birra – le conferisce il caratteristico colore scurissimo. Quasi nero appunto, come il carbone che le dà il nome. Ma torniamo all’elemento di base: la ricetta tradizionale infatti non prevede semplice polpa di manzo, bensì carne salata valdostana o tseur achétaye.
Questo prodotto tipico è ricavato dai tagli nobili di manzo, capra o pecora non stagionati: la conservazione infatti avviene tramite salamoia nei doils, i contenitori in rovere o castagno riempiti con strati di carne, sale ed erbe aromatiche. In questo modo la carne rimane fresca e morbida e può essere consumata cruda a fettine sottili stile bresaola; oppure più spessa previa reidratazione e cottura come succede nella carbonade. La tseur achétaye viene usata anche come base per il bouilli à la saumure, letteralmente “bollito di salamoia” servito con salsiccia e patate.
Seupa à la vapelenentse
La Valpelline si staglia a nord della Valle d’Aosta con i suoi paesaggi mozzafiato culminanti nel Dent d’Hérens a più di 4000 metri di altezza. In dialetto patois viene chiamata Coumba fréda, ossia “valle fredda” per le temperature invernali qui particolarmente rigide: e quale delizia tipica più giusta di un corposo piatto unico per scaldare membra e animi rattrappiti? Nasce così la seupa à la vapelenentse o zuppa valpellinentze, una poderosa casseruola di pane, fontina, burro, brodo di carne, verza e cannella da far dolcemente fondere e dorare in forno. Il pane di un giorno prima (che una volta era nero di segale e oggi può essere di tutti i colori) e il formaggio vengono disposti a strati nella pirofila; su di essi viene versata la seupa di verza e carne in modo tale da irrorarli completamente. Attenzione: la ricetta vera non prevede di alternare anche la verza stessa agli strati, piuttosto tenetela da parte e usatela come contorno (mange tes légumes! direbbero i francesi). Infine il burro, la spolverata di cannella e via in cottura, in attesa della crosta e del profumino che chiama tutti a tavola.
Chnéffléne
Simili agli spaetzle tirolesi, i chnéffléne sono gli gnocchetti tipici di Gressoney-Saint-Jean, perla valdostana ai piedi del Monte Rosa e unicum linguistico per via delle sue radici germaniche. Qui infatti si parla il titsch, variante locale dell’idioma walser che è a sua volta un dialetto alemanno simile allo svizzero tedesco e il nome della comunità che qui si stabilì intorno al XII-XIII secolo. Proprio per questo motivo è facile imbattersi nella dicitura chnéffléne walser, giusto per essere precisi. Si tratta di bottoncini di pastella (farina, uova, latte, sale) ricavabili con una grattugia apposita a fori grandi dotata di elemento scorrevole per copparli. Una volta formati, vengono cotti in acqua bollente e ricoperti di fonduta: in questo caso è d’obbligo la toma di Gressoney fusa insieme a latte e burro.
Chnolle
Se le patate non sono disponibili, si possono sempre preparare gli gnocchi di polenta che in Valle d’Aosta si chiamano chnolle. Non chiedete ai francesi come si traduce questa parola in slang, vivete meglio senza e mangiate senza pensieri. Torniamo a noi: la base è proprio quella di una polenta, latte e farina di mais mescolati bene per evitare grumi. Una volta raffreddati si incorporano uova e formaggio grattugiato e in teoria gli gnocchi sono pronti per essere formati e cotti in acqua bollente o brodo. Ma ecco che si aggiunge un elemento imprevisto: riso e chnolle è infatti una popolarissima variante (per non dire aggiunta) del piatto che include riso cotto e fontina lasciati gratinare nel forno insieme agli gnocchi. Il risultato è, e usiamolo sto francesismo ça va sans dire così almeno recuperiamo, un trionfo filante di carboidrati e lattosio che per consolazione definiremo “senza glutine”. Di fatto lo è, poi gli effetti sulla digestione li lasciamo giudicare a voi singolarmente.
Pèilà nèira
Le zuppe della Valle d’Aosta, ormai lo avrete intuito, non sono fatte per l’idratazione. Il brodo se c’è è in minoranza, e più spesso viene usato come “ammorbidente” per tutti gli altri ingredienti, pane in primis. Con la pèilà nèira, la “pappa nera” tipica di Cogne, il trend viene ancora una volta confermato: il protagonista è il pan ner, che secondo tradizione si produce una volta l’anno nel forno collettivo e viene conservato a lungo sulle ratelì, apposite rastrelliere di legno. Quando diventa troppo duro si taglia con il copapàn, attrezzo severo ma giusto e soprattutto affilato che sminuzza le fette per destinarle a molteplici usi futuri.
Il che ci riporta alla pèilà, minestra di pane o farina integrale (spesso segale o grano saraceno) a prima vista ideale per la prima infanzia. Certo, fino a quando non viene rinforzata con le solite, generose badilate di burro e fontina. Altra sua declinazione è nella seupa de l’âno aka “zuppa dell’asino” che tanto assomiglia alla colazione del nonno: in questo caso il pane viene cotto nel burro, cosparso di zucchero e irrorato con vino aromatizzato o latte. Mentre voi scegliete tra la versione zuppa (calda e salata) o pudding (dolce e freddo), noi puntiamo sul sicuro, ovvero l’accoppiata pane-burro che non delude mai.
Favò e puarò
La regola della zuppa è sempre valida, specialmente se diventa più simile a una pasta che a una minestra. Il favò è la crema di fave tipica di Ozein, frazione di Aymavilles: anche in questo caso il borgo è famoso per il suo pane nero di segale, ingrediente immancabile della ricetta. Oltre a fave fresche e pane, il favò comprende pasta corta tipo ditalini o maccheroni, fontina, burro ed erba cipollina. Il dilemma è sempre quello, forchetta o cucchiaio? Base diversa ma stessi ingredienti di contorno per la puarò, una minestra di porri (ed eventualmente patate) arricchita da formaggio e brodo di carne.
Soça
La soça dipende da come la guardi: a volte la prendono per una zuppa di fagioli, lardo e salsiccia con aggiunta di spezie e patate; altre, specialmente dalle parti di Cogne, diventa un piatto unico, anzi il piatto unico. A livello nutrizionale infatti non le manca proprio niente. La soça valdostana più conosciuta è un pasticcio di carne (manzo o vitello) cucinato in tegame con verza e patate e rifinito in forno con fette di fontina e burro fuso. La carne, ancora prima della ricetta vera e propria, viene fatta marinare più giorni con sale grosso ed erbe aromatiche: per questo motivo a volte si opta direttamente per la tseur achétaye valdostana, la stessa della carbonade che utilizza più o meno lo stesso procedimento.
Involtini di Fénis
Perché occuparci di semplici scaloppine di vitello ripiene tipiche di un solo posto, quel di Fénis nell’area centromeridionale della regione? Beh perché questi involtini ci danno la scusa per parlare della mocetta o motsetta, uno dei salumi italiani non di maiale da conoscere. Il nome è una contrazione in patois valdostano di “morceau de vianda setza” ovvero “pezzo di carne secca”, definizione che non le rende assolutamente onore ma tant’è. Viene ricavata da tagli magri bovini, equini o di selvaggina, soprattutto muscolo o coscia: dopo un periodo di salamoia con sale ed erbe aromatiche, la carne viene appesa e fatta stagionare in luogo ventilato e asciutto. A maturazione ultimata la mocetta si consuma come un qualsiasi affettato: sul tagliere per l’aperitivo, su una fetta di pane a merenda o appunto come ripieno delle scaloppe insieme all’onnipresente fontina. Una volta chiusi, gli involtini vengono rosolati nel burro ed eventualmente cucinate flambé con brandy, più un goccio di panna per condimento: ed è subito anni Ottanta.
Costolette alla valdostana
Da grandi poteri derivano grandi responsabilità. Lo sa bene la fontina, forse la Dop più conosciuta della Valle d’Aosta insieme al lard d’Arnad, cui basta la propria presenza all’interno di un piatto X per bollarlo automaticamente come “alla valdostana”. Incorporazione significa aggettivazione: succede alla fonduta (tipica della Svizzera), alle crespelle, alla focaccia con prosciutto. Lo stesso vale per le cotolette o costolette alla valdostana che dir si voglia: la versione locale del cordon bleu prevede fette di vitello riempite di prosciutto cotto e fontina, quindi impanate in uovo e pangrattato e fritte nel burro. E gli è andata pure bene, considerato che ormai il cordon bleu viene associato molto più al banco freezer che ai ristoranti da cristalli e guanti bianchi. Tutto grazie a questo formaggio vaccino, semiduro e a pasta semicotta che nonostante tutto resta umile: si scioglie a comando, regala aggettivi e ci delizia a ogni morso.
Flantze
Ve lo ricordate il pan ner di prima, quello che per tradizione veniva cotto una volta l’anno nel forno collettivo e poi conservato e distribuito alla “prendete e mangiatene tutti”? Ecco, alla fine delle infornate quel che rimaneva dell’impasto veniva trasformato in flantze, un dolce rustico concettualmente simile al pane fichi e noci diffuso nel centro Italia. Farina di segale (ed eventualmente di frumento in parti uguali) si sposa a burro, frutta secca, uva passa e tutto quel che di buono può uscire da una dispensa d’altri tempi. Chi non ha paura di errare sul lato dell’abbondanza può benissimo metterci il carico con zucchero, uova e latte e sconfiggere definitivamente la “povertà” associata a questo dolce da colazione: a patto di fare pace con le calorie, ovviamente.
Tegole
Il concetto di “cialda” in pasticceria assume le forme più varie: si va dal croccante involucro dei cannoli siciliani alle ferratelle o pizzelle abruzzesi, dalle fragranti langues de chat al cono artigianale da gelato – si spera di qualità altrettanto all’altezza del suo contenitore. E poi ci sono loro, le tegole valdostane che prendono dichiaratamente ispirazione dalle tuiles francesi, le “piastrelle” che generano dolcissime coperture di tetti. Questi sottili biscottini da caffè furono infatti creati alla fine degli anno ’30 dalla famiglia di pasticcieri Boch proprio in seguito a un viaggio in Normandia, terra nota per crêpes, burro e mele. In poche parole, il paradiso per un pasticciere. E la sua fortuna visto che le tegole vanno ancora fortissimo in tutta la Valle d’Aosta e oltre, forse anche per la loro inaspettata leggerezza: contengono soltanto albume, zucchero, farina di mandorle e nocciole.
Torcetti di Saint Vincent
Niente paura, le calorie risparmiate nelle tegole si recuperano facilmente con gli irresistibili torcetti di Saint-Vincent, biscotti al burro dalla caratteristica forma a ciambella intrecciata all’estremità. Di base si tratta di una pasta lievitata zuccherata cui viene incorporato il burro, chi dice durante l’impastamento, chi dopo la prima lievitazione. Poco male, il risultato fatto bene è friabile e fragrante, ideale per l’inzuppo in latte, caffè, tè, vino dolce e chi per voi. Ricordiamo che di torcèt è pieno anche il Piemonte con ricette tipiche rimbalzanti tra Canavese, Biellese, Torinese e Valli di Lanzo e variabili soprattutto dal punto di vista dello spessore e della quantità di burro.
Tornando in Valle, concludiamo il capitolo biscotti citando le ciambelline di granoturco tipiche di Aosta, i biscotti alle castagne di Donnas, e i troillet, versione locale dei brutti ma buoni a base di noci, zucchero e albume.
Mécoulin
Il pandolce delle feste è sempre il benvenuto a tavola, a tutti i pasti e tutte le ore (che peraltro durante le feste tendono a confondersi gli uni con le altre) comprese quelle piccole da fame chimica. Lou mécoulin della Val di Cogne è l’equivalente del panettone e in qualche caso anche della colomba: per tradizione veniva preparato alla comparsa delle prime nevi e caricato di ogni ben di dio proprio per corroborare il fisico in previsione delle lunghe giornate invernali. Poi, visto il successo della ricetta, è stato adottato come simbolo interscambiabile delle festività principali, da Natale a Pasqua. Al semplice impasto del pane vengono aggiunti zucchero, latte, uova, burro, panna, uvetta e scorze di limone più un bicchierino di rum che non guasta mai.
Come per i biscotti, anche di pani dolci è pieno il Valle d’Aosta. Tra i più noti citiamo la piate di Issogne, sottile pane rustico (anche in versione salata) di farina integrale con uvetta e mele; e la micòoula di Hône, il “pane piccolo e speciale” in patois tradizionalmente preparato con la farina di castagne. Oggi questo prodotto registrato nell’Arca del Gusto Slow Food mantiene le castagne come arricchimento (insieme a noci, fichi e uvetta) su una base di farina di segale.
Crema di Cogne
A Cogne ne sanno una più del diavolo, e al posto della normale cioccolata calda si sono inventati un originale dolce al cucchiaio per inzuppare tutti i biscottini di cui sopra. La crema di Cogne viene preparata con cioccolato, panna, zucchero, tuorli d’uovo e rum: dopo aver sbattuto i tuorli con lo zucchero e scaldato la panna con il cioccolato, tutti gli ingredienti vengono portati lentamente a bollore e amalgamati fino a ottenere una crema densa. Pronta in pochi minuti, viene servita ancora calda con l’aggiunta di scaglie di mandorla, cioccolato o granella di nocciole. A questo punto manca solo il cucchiaio o, ancora meglio, una bella tegola di supporto.
Caffè alla valdostana
L’amicizia è uno dei valori fondanti della vita umana, e in Valle d’Aosta lo sanno bene. Il caffè alla valdostana è sinonimo di condivisione, e non parliamo dell’ospite che ti porge la tazzina o del collega che offre alla macchinetta. Questa versione maxi del caffè corretto ha per vettore una vera e propria “coppa dell’amicizia”, il tipico contenitore di legno a beccucci in numero pari perché si sa che il gruppo dispari (13 specialmente) porta guai. Ogni “amico” può così passare la coppa al commensale, in teoria (e a maggior ragione nell’era Covid) senza rischio di bere dalla stessa estremità. Ma bere cosa precisamente? All’interno della coppa viene versato caffè bollente insieme a grappa, zucchero, buccia di limone e chiodi di garofano. Chi vuole strafare/si può aggiungere cognac e genepì, il liquore valdostano a indicazione geografica a base di artemisia alpina. Il brindisi è, naturalmente, all’amicizia.