Ha aperto da poco a Milano il LAC, il 20 Settembre per l’esattezza. Ed è un Laboratorio di Antropologia del Cibo, un luogo dove imparare, assaggiare, incontrarsi e conoscere cucine e storie di persone da tutto il mondo, dal Nepal al Cilento. “Ma non è la classica scuola di cucina” avverte Giulia Ubaldi ideatrice e realizzatrice di questo progetto.
C’è un filo che collega l’antropologia al cibo e non è neanche tanto sottile. Lo dimostra bene il lavoro di Giulia Ubaldi, antropologa e giornalista, che fondendo le due competenze, ha saputo leggere il mondo del cibo con una prospettiva unica. Dopo anni di viaggi, conoscenze e reportage, decide di aprire il LAC a Milano nel quartiere Giambellino, proprio davanti casa sua. “Alcuni pensano che dietro ci sia il Comune di Milano o chissà chi, invece ci sono io e faccio tutto da sola. Volevo creare un luogo che fosse una casa”. Una casa completamente autofinanziata: “É successo tutto nel giro di un mese: ho venduto casa di mia nonna, ho visto questo locale proprio sotto casa mia, un posto diverso, vero, che volevo mi rispecchiasse. L’ho comprato, ho comprato la cucina, e poi ho chiamato tutti i cuochi e le cuoche che avevo conosciuto durante il mio lavoro in 10 anni” racconta Giulia.
E così nasce il LAC, un laboratorio di antropologia del cibo, ma anche una scuola dove si impara, in senso più stretto, dove ci si forma. Qui si svolgono incontri di due ore tenuti da oltre 40 cuochi e cuoche che provengono dall’Italia e/o dal resto del mondo e che hanno almeno due caratteristiche comuni: sono persone “migranti” nel senso che si sono mosse nel mondo da un luogo all’altro (anche dal Cilento a Milano, per intenderci) e sono tutte appassionate di cucina. Nella varietà dell’offerta didattica del laboratorio c’è proprio la sua ricchezza, ma non chiamatela cucina etnica: sono persone diverse con una comune passione per la gastronomia disposte a condividere le proprie ricette e le proprie origini, non c’è una parola che le definisca tutte. “Nessuno di loro ha mai insegnato. Non sono insegnanti di mestiere e ti posso garantire che insegnare, cucinare, coinvolgere, tutto insieme e spesso in una lingua che non è la tua non è affatto semplice”.
C’è il laboratorio sulla pasticceria vegana del Venezuela, quello sulla marinatura della carne delle Filippine, quello sul cous cous della Tunisia, quello sulle empandas dell’Argentina, quello sulla cucina rituale vegetariana dell’Armenia, quello sulla cucina autentica di casa dell’Indonesia, quello sul Dhal Puri delle Mauritius, ma anche quello sulle tradizioni del Cilento e di Milano. E potremmo andare avanti così almeno fino a 30, come i cuochi e le cuoche che presiedono i corsi del LAC, ognuno secondo una propria chiave. Rispetto all’idea di scuola, siamo oltre. Nel senso che venire qui è anche esperienza, condivisione: si mangia, si cucina, si apprende frontalmente, a seconda dell’insegnante e del suo stile.
È un modello ibrido che sta andando molto bene e funziona alla grande anche come regalo. “Il cibo poi fa scattare subito un certo livello di confidenza. Ma su una cosa sono stata categorica: qui niente corsi a tema. Non esiste che si fa la “cucina marocchina” in senso generico. Qui si approfondisce un rito, oppure la pasticceria, il cous cous, le empanadas. Bisogna rendere bene la varietà senza incasellarla nel paese di provenienza. Anche perché al LAC ci sono persone più di Milano di tutti”.
L’offerta formativa è molto ricca e trae spunto proprio dalle esperienze e dal lavoro di Giulia, spesso da pura casualità o da un invito a casa. “Ieri una persona mi ha detto: ti leggo da un po’ e mi sembra che adesso i tuoi articoli prendano vita. Io sono scoppiata a piangere, come sempre, naturalmente”. Oggi sono tanti i cuochi che si affacciano al LAC o scrivono per proporsi come insegnanti. Gli incontri sono uno o due al giorno, sia la mattina che la sera, e costano 45 euro. Ci si prenota tramite il sito e si partecipa con il Green Pass. Si ricevono le ricette, si sta intorno a un tavolo che di suo sa ispirare grande convivialità. E poi si mangia, quello sempre.
Foto di Emanuela Colombo