E se per una volta, a Carnevale, a Venezia, oltre a parlare di frittelle vi dicessimo “mamelucchi”? Se è indubbio infatti che la fritola cittadina sia amata oltremisura, è pur vero che oscura il resto della produzione dolciaria del periodo. Ed è un gran peccato: non solo perché galani (o crostoli) e castagnole rimangono, snobbati, a languire nei vassoi, ma anche perché si perdono delle perle quasi sconosciute, note solo agli autoctoni e frutto del lavoro di laboratori artigianali unici.
I mamelucchi sono dolci fritti che con la diva e sciantosa frittella condividono solo il passaggio rumoroso nell’olio: nati in un laboratorio artigianale che è un pezzo di storia della città, la pasticceria Targa, sono reperibili praticamente solo qui. Nonostante infatti la ricetta sia stata sottratta e replicata da un concorrente (ogni dolce che si rispetti ha una storia che si tinge di giallo), gli originali mamelucchi (o mammalucchi, ma potete dire mameluchi o mameluchi, in caso voleste mimetizzarvi tra i veneziani non appena ci si potrà nuovamente spostare tra regioni) sono solo quelli della pasticceria al civico 1050 del sestiere di San Polo.
Inutile cercarne tracce etimologiche su Wikipedia. Qui infatti il termine – noto probabilmente solo ai seguaci del canale Youtube di Alessandro Barbero – rimanda al significato primigenio, che si rifà alla storia medievale. Col vocabolo arabo mamālīk (plurale di mamlūk, cioè posseduto, schiavo) si indicano le milizie turche e circasse originariamente formate da un corpo di schiavi convertiti all’islamismo, al servizio dei califfi abbassidi e che progressivamente si imposero alla guida soprattutto di Siria ed Egitto, succedendo di fatto ai loro signori Ayyubidi (ultima dinastia), fra il 13° e il 16° secolo, venendo poi definitivamente sconfitte da Napoleone.
Ci avviciniamo di più alle origini del dolce e alla sua nascita grazie alla dottissima Treccani, che ci ricorda il significato figurato del termine “persona sciocca e goffa”. Condividendo la sorte di molte ricette di pasticceria, poi divenute dolci di successo e simboli gastronomici, anche i mameluchi sono nati da un errore in fase di lavorazione. Lo racconta Marco Rizzetto, titolare della pasticceria Targa, insegna trentennale a Venezia: “l’origine dei mameluchi si deve a Sergio Lotto, di Murano, pasticcere oggi ultraottantenne che lavorava qui molti anni fa. Era uno dei più stimati e preparati in città: preparava il suo lievito madre e i colleghi facevano la fila per rifornirsene. Un giorno stava impastando un dolce, un lievitato con uvetta e cubetti di arancio, ma si accorse di aver sbagliato le proporzioni tra gli ingredienti”: di qui l’esclamazione circa la propria sbadataggine “che mammaluco!” che immaginiamo accompagnata da tanto di mano scenograficamente infarinata che colpisce la fronte.
Il resto è storia: corresse ad occhio le dosi e invece di cuocerlo al forno, come inizialmente previsto, ci aggiunse della crema e finì per friggerlo. Inutile chiedere la ricetta dei mameluchi: si sa che gli ingredienti sono farina, zucchero, uova, burro, uva passa e cubetti di arancio e che ad arricchire l’impasto c’è una morbida crema aromatizzata all’arancia.
Il risultato è una preparazione che occhieggia più alla tradizione araba dei dolci di strada che a quella delle tonde frittelle: la forma infatti è a cilindro, cui la frittura conferisce una doratura perfetta e una croccantezza che non arriva all’interno ma si limita a rendere fragrante la superficie. Siamo di fronte ad una duplice natura, indecifrabile: un impasto fritto e una crema cotta, cui uvetta e cubetti di arancio rappresentano dei punti e virgola in una frase fatta di una serie di morsi altrimenti uguali o – come nel caso delle frittelle – carichi delle lusinghe di una crema chantilly o zabaione. Impossibile quindi descrivere i mameluchi, a meno di non utilizzare le parole di Marco Rizzetto, che li prepara da anni: “sono una specie di crocché alla crema di arancia in cui la frittura si ferma un attimo prima di arrivare all’interno”. Descrizione apprezzabile: peccato che l’attenzione cali immediatamente dopo il primo morso, che azzera tutto il resto.
[Crediti immagini: Marco Rizzetto]