“La Dotta, la Grassa, la Rossa”: in una parola Bologna, il capoluogo dell’Emilia-Romagna dal triplice soprannome. Certo, il merito andrebbe distribuito equamente tra l’Università e l’architettura urbana che la caratterizzano, ma quel Bologna La Grassa che immediatamente identifica la città nel linguaggio comune ci dice che è stata proprio la cucina a spuntarla. Oggi vi raccontiamo cosa mangiare a Bologna da spuma di mortadella al tortellino depositato, lasagne verdi, gialle e goccia d’oro, crescente, crescentina, friggione, gramigna e il ragù più famoso, per finire con torta di riso, pinza e certosino.
Prima di partire però una precisazione: ad avventurarsi tra le specialità di Emilia e Romagna si cammina sulle uova – e non ci allontaniamo molto dalla verità visto che siamo nella patria della pasta fresca. Intendiamo dire che spesso i confini della tipicità sono estremamente labili e contese fra tortellini e tagliatelle, tanto per dirne due, sono sempre accese. Così, laddove prevale l’incertezza, abbiamo deciso di nominare Pellegrino Artusi come arbitro di eccezione. L’autore della formidabile raccolta di ricette e argute osservazioni La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene è stato per certi versi un codificatore di piatti tipici, ed è proprio con il suo aiuto che cercheremo di orientarci nell’intricata costellazione delle specialità regionali, a partire da quelle bolognesi.
Dopo le cucine di Roma, Milano, Firenze e Napoli non poteva mancare l’esplorazione gastronomica del capoluogo emiliano. Che poi, se mezzo mondo associa il nome proprio o l’aggettivo bolognese a tante preparazioni diverse, un motivo ci sarà. Ecco quali sono i 20 piatti tipici da assaggiare a Bologna, dall’antipasto al dolce.
Spuma di mortadella
All’estero la chiamano bologna, e in questo caso di solito è una schifezza Italian sounding rosa Peppa Pig che a noi fa accapponare la pelle. Tuttavia il nickname internazionale suggerisce un legame strettissimo con la sua città di origine. E qui casca la Mortadella Bologna Igp, quella vera costituita da parte magra rosa (da muscolatura striata) e parte grassa bianca, ovvero i lardelli ricavati dal grasso di gola (min. 15% da disciplinare). La questione dei pistacchi, almeno secondo il Consorzio Mortadella Bologna, spacca l’Italia in due: a Nord senza, a Sud con. A impasto e speziatura seguono cottura (almeno 70° C al cuore) e docciatura, il passaggio in acqua fredda essenziale per stabilizzare gli ingredienti.
Diffidate dalle imitazioni: la mortadella artigiana felsinea basta a se stessa, al massimo sposata a due fette di pane. Tuttavia, per chi volesse remixarla giusto un po’, il piatto tipico da provare è la spuma o mousse di mortadella con tanto di ricetta depositata presso la Camera di Commercio di Bologna: mortadella, ricotta, parmigiano e panna liquida da spalmare su crescente e crescentine (ci arriveremo tra poco) o sulle streghe bolognesi, sfoglie di pane croccanti a forma romboidale. Un calice di bollicine e l’aperitivo è servito.
Post Scriptum: ci sembra importante ricordare anche il Presidio Slow Food dedicato ai Salumi rosa tradizionali bolognesi. Oltre alla mortadella classica, questi comprendono lyon, impasto di mortadella insaccato nel budello gentile e aromatizzato con aglio e pepe e salame rosa, un tempo diffuso tanto quanto la mortadella: esso consiste in prosciutto e sotto spalla tritati, più spalla tagliata al coltello che conferisce all’insaccato un gradevole effetto marmorizzato.
Stecchi alla petroniana
Lo street food d’altri tempi a Bologna si mangia sugli stecchini. Gli altri tempi, per inciso, sono quelli di Pellegrino Artusi: a sentir lui al posto della pasta fresca e ripiena si direbbe che la città sprizzi fritto da tutti i pori. C’è la coratella, il fritto d’agnello, la “bomba composta” (che con ironia l’autore descrive così: “Queste bombe devono essere scoppiate per la prima volta a Bologna. La carica che contengono di cacio e mortadella me lo fanno supporre”) e naturalmente il Gran Fritto alla bolognese, per certi versi simile a quello ascolano già descritto nella cucina marchigiana e completo di verdure, carne e crema fritta.
Gli stecchi petroniani, da San Petronio patrono della città, compaiono alla ricetta #203 come “Fritto negli stecchini”. Composizione: fegatini, lingua salata e gruviera, passati prima nella balsamella (besciamella), poi nell’uovo e infine nel pangrattato. Col tempo gli stecchi si sono progressivamente spogliati di carne e interiora mentre oggi, quando e se li trovate, sono di solito a base di mortadella e formaggio. Per quanto riguarda la besciamella, beh se vi va potete provare a usarla come dip di accompagnamento al posto della maionese: attenti però a non farvi vedere da Bruno Barbieri!
Crescente
La ricetta #194 dell’Artusi, curiosamente, non è una ricetta. Piuttosto è un’ode alla tipica focaccia bianca con prosciutto che esordisce con l’esclamazione: “Che linguaggio strano si parla nella dotta Bologna!”. Da lì in poi l’Artusi ci illumina su una serie di qui pro quo dialettali (panni per tappeti, zucche per fiaschi, latti per animelle, e così via): con questi presupposti è facile aspettarsi che per “crescente” non si indichi la luna, trattasi invece di una “schiacciata, o focaccia, o pasta fritta comune che tutti conoscono e tutti sanno fare, con la sola differenza che i Bolognesi, per renderla più tenera e digeribile, nell’intridere la farina coll’acqua diaccia e il sale, aggiungono un poco di lardo”.
Visto che ci siamo allora parliamo di etimologia: crescente deriva da carsent, che cresce. Nei forni di un tempo, per non sprecare niente, gli avanzi di pasta lievitata (che cresce, appunto) venivano arricchiti dai ranzétt di prosciutto, ritagli in via di irrancidimento da consumare il più in fretta possibile. Dopo la cottura in ruole (le teglie di ferro poste all’interno del forno) era pronta la colazione del panettiere, una focaccia del recupero gustosa e fragrante. Oggi per fortuna non si usano prodotti in scadenza, e i ranzétt sono stati sostituiti da lardo, prosciutto, pancetta o ciccioli. Ma torniamo alla nostra ricetta: la crescente ha così colpito l’immaginario ed evidentemente lo stomaco dell’Artusi, che la sua descrizione prosegue con l’elogio alla franchezza dei cittadini e si chiude addirittura con un passo del Boccaccio dedicato alle donne bolognesi: “… se io avesse degne lodi da commendarti, mai sazia non se ne vedrebbe la voce mia”. Insomma tutti stregati dalla luna, pardon dalla crescente che si gusta solo a Bologna.
Crescentina
Indizio: non è la sorella minore della crescente. La crescentina è lo gnocco fritto di Bologna, più che degno sostituto del pane per spizzicare salumi e formaggi. Qualcuno però, alla comparazione crescentina uguale gnocco potrebbe avere qualcosa da obiettare, e allora chiariamo subito dove e perché cosa vuol dire cosa. Partiamo dallo gnocco, un impasto semplice a base di farina, acqua e sale da friggere rigorosamente nello strutto che ha varianti (più linguistiche che tecniche, va detto) in tutta Emilia: torta fritta a Parma, chisolino a Piacenza, pinzino a Ferrara, burtleina a Faenza. La più famosa è indubbiamente il gnocco fritto modenese o gnòc fret da accompagnare con il “pesto montanaro” a base di lardo, aglio e rosmarino.
Di crescentine emiliane invece ne esistono solo due, contese tra Bologna e Modena. La prima è appunto quella fritta della famiglia dello gnocco; la seconda, a sorpresa, non è altro che la tigella. Anzi, a tutti gli effetti è il suo vero nome visto che “tigella” indica il dischetto di terracotta in cui la “crescentina” (che come la crescente di prima indica l’impasto in lievitazione) viene messa a cuocere. L’ennesimo caso di metonimia insomma, in cui il nome del contenitore si sostituisce al nome del piatto. Ci torneremo: a Bologna basti ricordare che all’aperitivo, per far “crescere” la fame, con crescenta o crescentina non sbagliate mai.
Galantina di pollo (o cappone)
Se nella cucina umbra la galantina è una specialità riservata alle festività natalizie, nelle trattorie tipiche di Bologna si celebra tutto l’anno alla sezione antipasti. Il pollo o cappone ripieno in gelatina fa parte dei cosiddetti “rifreddi”, vivande cotte da consumare una volta raffreddate, di solito come antipasto o intramezzo tra una portata principale e l’altra. Lo ritroviamo alla ricetta #366 dell’Artusi “Cappone in galantina” e gli ingredienti sono praticamente gli stessi usati oggi: lingua, prosciutto, fesa di vitello, lombo di maiale, uova, pistacchi, tartufi. Le carni, pestate e marinate nel Marsala, vengono poste a strati all’interno del qualsivoglia pennuto già svuotato e disossato. Il tutto viene legato e cotto lentamente in casseruola con qualche cucchiaio di brodo e i suoi odori. La galantina tagliata a fette viene servita con salsa verde e la sua gelatina, ricavata dal brodo raffreddato. Il che dovrebbe decretare la pace fra coloro che individuano l’origine etimologica del piatto nel francese medievale galine (gallina) e coloro che invece tifano per il tardo latino galatina (gelatina): in quella bolognese ci sono entrambe, pari e patta.
Friggione
Può accompagnare solo: oppure no? Il friggione, in dialetto frizòn o frizàn, è in effetti il contorno di elezione a Bologna, un po’ salsa e un po’ stufato che non sfigura sulla pasta e a fianco di bolliti, polente e voracissime fette di pane pronte a scarpettarlo. Volendo però si riesce a farlo diventare un secondo, basta aggiungere salsiccia, prosciutto crudo o altro insaccato a piacimento. A base di cipolle, pomodoro e strutto, il piatto ha origini umilmente contadine ma viene codificato per la prima volta da una signora decisamente borghese, tale Maria Manfredi Baschieri che nel 1886 ne annotò ingredienti e preparazione sul ricettario di famiglia. Avanti veloce fino al 2003 per ritrovare la ricetta tal quale depositata dall’Accademia Italiana della Cucina nella Camera di Commercio di Bologna. Così nasce un piatto tipico.
Le caratteristiche essenziali del friggione sono due (e mezzo), proprio come il numero dei suoi ingredienti. La cipolla, preferibilmente bianca e accuratamente macerata in sale e zucchero per eliminare l’acqua in eccesso e fare in modo che “si sciolga letteralmente in bocca”; i pomodori, meglio pelati o comunque privati della buccia che a fine cottura si trasformano in una salsa “lenta”, né densa né ristretta. Infine la componente grassa, per tradizione lo strutto ma sono ammessi anche pancetta, lardo e olio extravergine in nome della dieta (mediterranea, cosa avete capito?).
Tortellino bolognese
Alt! Fermi tutti, lo abbiamo scritto nel titolo: non parliamo di tortellini e non vogliamo nulla togliere alla tradizione dei piccoli e inconfondibili ombelichi ripieni che attraversa tutta l’Emilia (ci dispiace Romagna, provaci ancora sarai più fortunata). Vi risparmiamo oggi le leggende sulle antiche origini del piatto e del suo nome, così come le diatribe con Modena e le differenze con le altre paste ripiene (emiliane e romagnole, stavolta sì). Il tortellino bolognese ha una sua storia moderna peculiare tutta ben documentata a partire, naturalmente, da quel buongustaio di Pellegrino Artusi.
“Quando sentite parlare della cucina bolognese fate una riverenza, ché se la merita”: inizia così la ricetta #9 dedicata ai “Tortellini alla bolognese”, la prima ad essere codificata nel 1891. È interessante notare che nella stessa sezione l’autore, partendo dal presupposto che quando si mangia bene tutto il resto dei problemi si risolva assai più facilmente, incoraggi la creazione di un Istituto culinario con sede proprio a Bologna. Le giovani cuoche ivi formate (cringiamo tutti fortissimo con l’osservazione “naturalmente più economiche degli uomini e di minore dispendio”) sarebbero da impiegare nelle case borghesi, così la loro buona cucina “sarebbe un farmaco alle tante arrabbiature che spesso avvengono nelle famiglie a cagione di un pessimo desinare”. E come dargli torto.
Ma proseguiamo oltre: è di qualche decade più tardi, precisamente il 7 dicembre 1934, la ricetta della signora Maria Grimaldi in Lanzoni, vincitrice di un concorso indetto dal comune per l’autentica ricetta del tortellino bolognese. La sua versione viene ripresa nel 1974 dalla Dotta Confraternita del Tortellino che la deposita con tanto di pergamena alla Camera di Commercio di Bologna. E così rimane invariata fino a oggi, con il titolo “Preparazione secondo arte per circa 1.000 tortellini”. La ricetta prosegue con gli ingredienti per la sfoglia (pasta fresca gialla preparata con 3 uova e 3 etti di farina), per il ripieno (300 g di lombo di maiale rosolato al burro, 300 g prosciutto crudo, 300 g vera mortadella di Bologna, 450 g formaggio Parmigiano Reggiano, 3 uova, 1 noce moscata) e per il brodo (1 kg di carne di manzo, 1/2 gallina ruspante, sedano, carota, cipolla, sale). In calce infine il riconoscimento alla Lanzoni Grimaldi.
Nel 2008 la Confraternita chiosa con la descrizione delle caratteristiche tipiche, ad esempio la sfoglia sottilissima e quasi trasparente tagliata a quadretti di 3 cm per lato, il peso finale di 5 grammi, o ancora il fatto incontestabile che il tortellino si mangia in brodo, altrimenti sono guai e come minimo vi guardano malissimo. L’unica deriva ammessa rispetto al “dogma” del brodo è il pasticcio di tortellini alla bolognese, altra ricetta depositata a base di tortellini al ragù di carne rinchiusi in uno scrigno di pasta frolla.
Balanzone
Dunque, il tortellino bolognese dall’alto della sua storia comprovata non ammette altro che brodo e al massimo qualche pasticcio. Il piatto tipico in versione asciutta che più gli assomiglia è il balanzone o tortello matto, pasta fresca ripiena caratterizzata dalla sfoglia verde all’uovo con spinaci. Il nickname tortello matto sembrerebbe derivare dalla sua composizione, una sorta di “riciclo” degli ingredienti avanzati dalla preparazione dei tortellini. In questo caso le dimensioni sono maggiori, la sfoglia più spessa, il ripieno di mortadella e ricotta e condimento classico con burro e salvia. Il nome ufficiale invece è preso in prestito direttamente dalla maschera della città e si riferisce al Carnevale, periodo in cui i tortelli erano protagonisti sulle tavole bolognesi. Balanzone è il Dottore, figura seria, saccente e puntigliosa che veste sempre di nero, peccato non sfini la pancia: sarà per le scorpacciate di balanzoni? Beh, fra tortelli e tortellini, non possiamo possiamo certo biasimarlo.
Zuppa imperiale
Diciamocelo: a prima vista sembrano croutons in brodo, al massimo un fantasioso mezzo di sopravvivenza da squattrinato studente fuori sede. E invece tutto il contrario perché la zuppa imperiale (in dialetto sóppa inperièl) o minestra reale parte dal presupposto che un tempo non tutti potevano permettersi tempo e denaro per prepararla. Quelli che un occhio inesperto potrebbe scambiare per croutons sono infatti cubetti di semolino in brodo, sapientemente preparati con una pastella di Parmigiano Reggiano, burro, uova e noce moscata. Nella versione ufficiale depositata in Camera di Commercio compare anche la mortadella pestata e mischiata al composto. L’impasto viene prima cotto in forno, poi raffreddato e infine tagliato nei canonici cubetti; ultimo passaggio è la cottura in brodo bollente, manco a dirlo quello dei tortellini. La zuppa imperiale con il suo nome altisonante è tanto indicata come apripista per cenoni festivi, quanto come elisir di guarigione per convalescenti, specialmente quelli appassionati di piatti d’antan.
Gramigna con salsiccia
No, la pianta erbacea e perenne che tutti bolliamo come “erbaccia” non c’entra con questa sostanziosa pasta al ragù di salsiccia. Un remoto legame botanico però c’è: il formato di in questione ricorderebbe il seme delle graminacee, la famiglia di piante che dà vita ai cereali. Corta, bucata e arricciolata, della gramigna non abbiamo grandi cenni storici o motivi che giustifichino il perché della sua diffusione in Emilia e in particolare a Bologna. L’unica certezza la si legge sui menù delle trattorie tipiche della città in cui il piatto appare invariabilmente tra i primi di pasta asciutta (distinguo fondamentale da fare nell’ambito della cucina emiliana e romagnola tutta) e condito al sugo di salsiccia con burro, cipolle e parmigiano, appena sporcato dal concentrato di pomodoro.
Strichetti
C’erano una volta, ben prima delle farfalle a produzione industriale, gli strichetti bolognesi. Il formato di pasta fresca a papillon affonda le sue radici nella cucina del recupero come riutilizzo dei ritagli di sfoglie dei tortellini e tortelli: basta premere al centro dei quadrati di sfoglia (oggi codificati in circa 4-4,5 cm per lato) con pollice e indice e poi frastagliare i bordi con la rotella tagliapasta, detta spronella. All’impasto si possono aggiungere anche ortiche o spinaci per la versione verde, mentre il condimento prevede ragù classico o asparagina, specie nel periodo primaverile.
Un tempo gli strichetti costituivano la tipica schiscetta contadina, da custodire già cotta e possibilmente ancora calda nella gamella di latta. Dal giugno 2019 la ricetta è depositata presso la Camera di Commercio di Bologna, mentre troviamo una prima versione citata da Artusi alla ricetta #51 “Strichetti alla bolognese”. Che, come sempre, ci regala tante soddisfazioni, soprattutto nel finale: “Se questa minestra vi piace, siatene grati a una giovane simpatica bolognese, chiamata la Rondinella, che si compiacque di insegnarmela”. E noi, 130 anni dopo, ringraziamo.
Ragù classico
Il ragù alla bolognese non ha bisogno di presentazioni. Piuttosto precisazioni, visto che di ragù e sughi di carne l’Italia è piena, e non solo: purtroppo siamo consapevoli dei mefitici barattoli che girano fuori dai confini nazionali millantando bolognese sauce e poi ci ficcano dentro la qualunque. Filippiche a parte, torniamo al noi. Anche in questo caso la certezza risiede nella ricetta ufficiale, depositata il 17 ottobre 1982 in Camera di Commercio. Recita così: polpa di manzo, pancetta di maiale, carota gialla, sedano, cipolla, passata di pomodoro, vino rosso, latte, poco brodo, olio o burro. Panna, facoltativa. Sì sì, avete capito bene: “Quando il ragù è pronto, secondo l’uso bolognese, si usa aggiungere la panna se si tratta di condire paste secche. Per le tagliatelle il suo uso è da escludere”.
A proposito di tagliatelle: con il ragù classico hanno un rapporto quasi simbiotico, e anche il legame con Bologna è fortissimo e rigidamente codificato. Tanto per dirne una: la misura aurea (esatto, aurea) della tagliatella si rifà alla Torre degli Asinelli di cui costituisce la 12.270ª parte. Tuttavia non ce la sentiamo di ridurre la “tagliatella emiliana” come piatto esclusivo di Bologna, non trovate? Alla prossima puntata per la full immersion sulla sfoglia.
Lasagne verdi, gialle e goccia d’oro
Ebbene sì: le vere lasagne alla bolognese sono verdi, con una sfoglia a base di farina, uova e spinaci. Le più famose in Italia e nel mondo hanno epicentro a Bologna, ma la loro storia si è sviluppata ben più a sud tra Roma e Napoli. Già Apicio citava la lagana, un tortino cotto al forno che consisteva in sfoglie di grano con strati alterni di carne. Il formaggio compare in epoca medievale con il Liber de coquina degli Angioini di Napoli; sempre Napoli ha il merito dell’aggiunta del pomodoro, mentre la prima codifica bolognese appare ne Il libro della cucina del sec. XIV del 1863 a cura di Francesco Zambrini. Il verde viene definitivamente glorificato nel 1935 da parte di Paolo Monelli, che ne Il ghiottone errante afferma: “Ho letto libri sacri e profani, ho cercato in mille volumi certezze e consolazioni, ma nessun libro vale questo volume di lasagne verdi che ci mettono innanzi i salaci osti bolognesi”.
Oggi la ricetta ufficiale prevede condimento a base di ragù classico, Parmigiano Reggiano, besciamella, burro e noce moscata. I dettagli cui prestare particolare attenzione sono in funzione dell’ “architettura” del piatto, in modo da risultare perfettamente “in piedi” dall’alto dei suoi (almeno) sei strati. Così i rettangoli di sfoglia devono essere regolari e non troppo sottili, e poi occhio al ragù, abbondante ma non eccessivo, besciamella cremosa e uniforme e raffreddamento tattico post infornata per evitare il tracollo al momento della porzionatura.
Gli altri colori delle lasagne bolognesi sono in teoria più canonici, ma aspettate di sentire il resto. C’è il giallo, dalla sfoglia semplice e ripieno assai più interessante a base di ragù classico, animelle, fegatini, panna e funghi trifolati; infine le goccia d’oro, la cui tinta particolarmente intensa deriva(va) dai tuorli in più, e fin qui tutto bene. Un tempo però i più più apprezzati consistevano nelle cosiddette ovarine, uova senza albume estratte dalla galline ovaiole macellate e aggiunte alla sfoglia, oppure usate per insaporire ragù e besciamella.
Cotoletta petroniana
Può essere che tra l’orecchia d’elefante milanese e la Wienerschnitzel austriaca alla fine la spunti la cotoletta petroniana? Già basterebbe la frittura generosa nel burro a renderla iconica, a Bologna però non si accontentano e la ricoprono con uno strato di prosciutto crudo e formaggio fuso. Lo diceva anche l’Artusi nella ricetta #313 “Cotolette col prosciutto”, ulteriore evoluzione della precedente e già ricca #312 “Cotolette di vitella di latte coi tartufi alla bolognese”. Le modifiche principali trasformano il piatto nella cotoletta alla bolognese che conosciamo oggi, da cuocere due volte: la prima per rosolarla nel burro, la seconda per scottare il prosciutto e far sciogliere il formaggio. Una variante della tradizione propone un strato in più di besciamella (!) da inserire insieme al pangrattato tra i due tuffi nel tuorlo d’uovo. Fun fact: quella alla bolognese è l’unica ricetta di cotoletta a comparire nell’archivio ufficiale dell’Accademia Italiana della Cucina. Milanesi dove siete, fatevi sentire!
Torta di riso
Probabilmente è il dolce più tipico di Bologna, e un’osteria o trattoria non può definirsi tale se la carta termina senza di lei. Il dulcis in fundo che tanto ci preme è la torta di riso, anche detta torta degli Addobbi per via della festività a cui è storicamente legata. La festa degli Addobbi, ispirata alle antiche processioni del Corpus domini, fu istituita per la prima volta dal cardinale Gabriele Paleotti intorno al 1566. Per l’occasione portici e finestre venivano decorati con drappi e teli colorati e, soprattutto nel corso del Settecento, la competizione per aggiudicarsi il titolo di palazzo più bello e sfarzoso era accesissima. Chissà, magari anche a livello culinario si faceva a gara per la torta di riso migliore: il dolce, porzionato in piccoli rombi o losanghe come avviene ancora oggi, si offriva ad amici e visitatori in occasione di questa giornata “a porte aperte” (e addobbate).
La torta di riso, secondo ricetta depositata il 14 dicembre 2005 alla Camera di Commercio di Bologna, si prepara scaldando il riso nel latte insieme a zucchero e scorza di limone. Alla crema di riso raffreddata si incorporano tuorli d’uovo, albumi montati a neve, mandorle e cedro candito; infine, dopo la cottura in forno, si spennella la superficie con amaretto o liquore alle mandorle. Il risultato è un dolce umido e cremoso arricchito da una deliziosa crosticina caramellata che, va da sé, addobba le papille a festa.
Pinza montanara
Una pinza per tutte le occasioni: c’è la pinza veneziana dell’Epifania, la triestina che è un pane dolce tipico di Pasqua, la pinza de lat trentina che rielabora il pane raffermo in un dolce da colazione. Nessuna però assomiglia alla pinza bolognese, il dolce di pasta frolla ripieno di mostarda o marmellata per celebrare le festività natalizie. La ricetta arriva dall’Appennino bolognese, da cui l’attributo “montanara” e il carattere piuttosto umile. Nella versione basic infatti la pinza è semplicemente la ciambella bolognese o brazadéla bulgnaisa con farina, uova zucchero, burro, latte e il profumo di limone. Insomma, il ciambellone classico buono per tutte le occasioni e le perifrasi che gli vengono attribuite: della nonna, da colazione, da inzuppo, da credenza, della tradizione, scegliete voi. Col tempo però la pinza si è fatta assai più sfarzosa e tutte le occasioni si sono ridotte alle grandi, merito dell’aggiunta di ingredienti “preziosi” quali mandorle, noci, cacao, uva passa e fichi secchi che per certi versi la rendono più simile al certosino. Per farvi un’idea, continuate a leggere.
Certosino
A Bologna il dolce rinascimentale della tradizione natalizia si chiama zertuséin o panspzièl, ovvero certosino o pan speziale. Il secondo nome suggerisce una doppia ipotesi sulla sua origine: da una parte c’è lo speziale, la figura del farmacista che un tempo poteva essere addetto alla preparazione del dolce, anche se francamente ci sembra più consono come dispensatore di alcuni ingredienti, specialmente i più preziosi. Dall’altra “speziale” suggerisce “speciale”, per la ricchezza degli ingredienti e le circostanze della sua consumazione. Più chiara l’origine del nome Certosino, dall’ordine monastico che lo ha “adottato” nei secoli successivi al Medioevo e la cui eredità si perpetua oggi nel cimitero monumentale della città.
Il certosino ha forma tonda e schiacciata con impasto a base di farina, miele, cacao, cioccolato e spezie e ricoperto da frutta secca e candita. Altre versioni un pelo meno ricche sono il panone di Molinella con marmellata, uvetta, scorza di arancio e cacao, e naturalmente non può mancare il “Pane bolognese” dell’Artusi alla ricetta #605 che all’impasto concede “soltanto” pinoli, cedro e zibibbo canditi.
Zuccherini
Auguri e figli maschi, anzi zuccherini! Gli zucarén sono biscottini di frolla all’anice a forma di anello nuziale, e non a caso visto che sono intrinsecamente legati al matrimonio. Ne troviamo in due tipologie: bolognesi e montanari, questi ultimi originari dell’Appennino bolognese. I primi, più piccoli e sottili, erano preparati in gran quantità dalle parenti e amiche della sposa per essere distribuiti a mo’ di bomboniera. Attenzione però: tutte le donne erano coinvolte meno la sposa perché si pensava non fosse di buon auspicio, un po’ come la storia del vestito da non svelare prima della cerimonia. Anche il colore aveva un suo perché: ben dorati fuori e bianchi dentro come simbolo di purezza del sacramento del matrimonio.
I secondi invece, montanari veri, sono più grandi e “rustici”, arricchiti da semi di anice nell’impasto e inzuppati in uno strato di glassa molto spesso, preparato a parte in padella scaldando zucchero, liquore all’anice e acqua. I biscottini servivano ai fidanzati per annunciare il matrimonio imminente, e venivano distribuiti ad amici e parenti al posto delle partecipazioni. La ricetta, depositata l’11 ottobre 2007, prevede farina, zucchero, burro, uova, mandorle e scorza di limone.
Fiordilatte bolognese
Latte, uova e zucchero sono la formula magica della pasticceria al cucchiaio: grazie a loro prendono forma budini e creme di tutti i tipi, dagli internazionali crème caramel e flan ai centralissimi latte brulè romagnolo e, appunto, fiordilatte bolognese. Il budino con il buco prende il nome dalla sua parte più nobile, il “fiore” del latte intero fatto bollire a lungo che affiora in superficie ricco di grassi e sostanze aromatiche. Quali sono le sue caratteristiche peculiari? Oltre alla forma, la consistenza soda e compatta, l’immancabile strato di zucchero bruciato e la cottura in stampo rigorosamente a bagnomaria.
Raviole di San Giuseppe
La festa del papà chiama fritto? Beh, verrebbe da pensarlo vista la profusione peninsulare di frittelle, bignè, zeppole e graffe. Bologna, dal canto suo, si distingue con le raviole di San Giuseppe, biscotti di pasta frolla ripieni di mostarda o marmellata fortemente legati alla tradizione contadina. Le mezzelune dolci infatti più che il padre celebravano la fine dell’inverno con auspicio di abbondanza per i raccolti primaverili ed estivi. Ancora oggi gli ingredienti tipici della mostarda bolognese dimostrano la stagionalità della ricetta: si prepara infatti con mele e pere cotogne, arance e zucchero.