Com’è nata la moda (americana) della pizza bruciata

Il trend della pizza bruciata impazza negli USA e noi cerchiamo di farcene una ragione indagandone le origini.

Com’è nata la moda (americana) della pizza bruciata

Pare che in America vada assai di moda la pizza bruciata. Cornicioni anneriti, bolle carbonizzate, amarissime strisce di nerofumo. E non parliamo di pizzerie pop che servono le famose slice da 1 dollaro per le strade di New York, ma di raffinate boutique artigianali che mettono una pizza media a 20 dollari: non si tratta quindi di trascuratezza, bensì di un effetto cercato. Ma com’è nato questo trend? E soprattutto, perché diavolo? Se lo chiede, denunciando il problema, il critico gastronomico di Eater Robert Sietsema, in un puntuto elzeviro.

Ora a noi da questa parte dell’oceano l’espressione pizza bruciata fa venire in mente lo stile partenopeo declinato al suo peggio, la diatriba tra pizzaioli napoletani e pizzaioli romani/settentrionali/gourmet, la famosa puntata di Report del 2014 intitolata “Non bruciamoci la pizza”. En passant, otto anni dopo la trasmissione di Rai 3 è tornata sul luogo del delitto, trovando una situazione assai cambiata, a loro dire (la puntata andrà in onda nella prossima stagione che inizia a novembre 2022), e intestandosene il merito – in un modo un po’ presuntuoso, dato che i germi del cambiamento erano già all’opera da qualche anno anche nella tradizionalista Napoli.

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Ma Report evidenziava soprattutto macchie di bruciato sotto la pizza, dovute alla farina della stesura e al fatto che i forni per fare in fretta non venissero mai puliti. Qua invece parliamo di bruciature sulla crosta della pizza, nella parte superiore, principalmente sul cornicione.  Eppure la spiegazione che le pizzerie hanno dato al giornalista americano chiama in causa proprio il principio di autorità e la tradizione: a Napoli si fa così, anche noi usiamo il forno a legna invece di quello a gas/elettrico che hanno le pizzerie industriali. Sietsema ribatte che lui a Napoli c’è stato, e non ha mai mangiato pizze così bruciate (beat’a iss’, mi verrebbe da aggiungere). E indaga sulle ragioni possibili: “I forni a legna, in generale, hanno maggiori probabilità di bruciare una pizza; se invece parliamo di forni a gas, il punto è che non va aperto troppo spesso per evitare che la temperatura scenda; c’è un certo atteggiamento piratesco nei pizzaioli, che vogliono passare per gente che cucina in modo audace e ‘maschio’; la pizza carbonizzata è un segno che si stanno producendo un volume ammirevole di pizze; infine c’è la disattenzione (o, più caritatevolmente, il multitasking)”.

Tutto vero, tutto indubitabile. Però a me è venuto un sospetto. Che ricondurrebbe il fenomeno a cause ancora più endogene, ancora più lontane da Napoli e legate invece al predominio della cucina nordica nel fine dining degli ultimi anni. E in particolare a un trend che ha preso piede nelle bakey contemporanee dalla California alla Scandinavia: quello del pane bruciato, burnt bread. Bruciare la pizza sarebbe allora non un errore, per quanto grave, ma una precisa scelta: ancora peggio.

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Qualche tempo fa avevo approfondito l’argomento in un articolo scritto per L’Integrale, una rivista solo cartacea che si occupa di pane nella maniera più ampia e interdisciplinare. Ne riporto alcuni passaggi: non per boria autocitazionista ma al contrario per non far finta di inventare ciò che sto solo ripetendo. (In più ci sono i link, che sulla carta ahimè non si possono mettere, e le foto da Instagram).

“Quello che è successo, a partire dai 5 o 6 anni fa, è che alcuni chef hanno iniziato a bruciare intenzionalmente gli alimenti: non più eccezioni, non più errori. Victor Albisu, che nel 2013 ha aperto il ristorante di cucina sudamericana Del Campo, ha raccontato al Washington Post che nei primi tempi il suo menu pieno di parole come smoke, charred e burnt, incuteva timore solo a leggerlo. Due o tre anni dopo, chiunque ha iniziato ad annerire, bruciare, carbonizzare: verdure arrostite fino a destare l’allarme in sala, dessert dai nomi evocativi come il charcoal-ate (si pronuncia quasi come “chocolate” ed è proprio cioccolato caramellizzato fino alla bruciatura).

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La bruciatura, secondo gli chef che la praticano, vuole essere una reazione di Maillard portata alle estreme conseguenze. O meglio, un tocco di Maillard in alimenti che non lo avrebbero. Non è un caso che viene usata per dare sprint a cotture che altrimenti ne difetterebbero, come quella di una zuppa che va a fuoco lento. Non è un caso che ha avuto successo in cucine come quella del nord Europa, dove per lunghi mesi la terra dà poco o niente, e bisogna letteralmente cavar sangue dalle rape. E poi, sostengono sempre gli chef, il segreto è nell’equilibrio: carbonizzare completamente il lato di una carota e lasciare l’altro colorato e morbido, aggiunge complessità, perché si suppone che la parte bruciata venga consumata insieme al resto. Infatti, e qui torniamo a noi, ci sono delle ricette in cui il pane viene carbonizzato e poi utilizzato come un ingrediente. Per esempio, in una specie di salsa, come faceva uno dei suddetti ristoranti di Washington (Tail up goat). O nella zuppa di toast, come suggerisce Jennifer McLagan nel suo Bitter: A Taste of the World’s Most Dangerous Flavor (del 2014), dove l’amaro e il bruciato vengono addolciti da latte e brodo. Oppure, semplicemente ridotto in polvere e usato come una spezia, come fanno Courtney Burns e Nick Balla nel libro Bar Tartine, e nell’omonimo locale, spin-off di quella Tartine Bakery di San Francisco che ormai è una leggenda internazionale (oltre che una piccola catena).

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Chad Robertson ha aperto Tartine nel 2002: il suo stile di pane – pasta madre, lunghe fermentazioni, alte idratazioni, grani alternativi – adesso non ci pare più rivoluzionario; adesso però. Lui è stato anche tra i primi a proporre una crosta sempre più scura, con una bella differenza tra alcune parti e altre. Viene fuori quindi che il burnt bread ha origini ben precedenti rispetto al trend della carbonizzazione nel fine dining: dall’altra parte, sulla East Coast, Zachary Golper ha programmaticamente chiamato Bien Cuit la sua panetteria, aperta a Brooklyn nel 2011. Golper ottiene la crosta scura con lunghe lievitazioni e soprattutto lunghe cotture a una temperatura sensibilmente più bassa della solita. A sua volta, il panificatore newyorkese si è ispirato al decano Mark Furstenberg, operativo nella capitale, il quale diffonde il verbo della crosta scura da 30 anni, a sentire chi ne sa, ed è stato il primo a portare lo “stile europeo” dall’altro lato dell’Atlantico. Stile europeo? Sta a vedere che l’abbiamo inventata noi la crosta bruciata.

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Nella Flor Bakery di Londra, si vedono pagnotte di un nero uniforme, inesorabile, che un pezzo di carbone è più sfumato. I commenti nei post di Instagram vanno dall’entusiasta al sarcastico: “Lo bruciate sempre in questo modo il pane?”. Ma le risposte sono piccate, e fanno capire che no, non è un errore del social media manager, quell’effetto i panificatori lo cercano, e non sono i soli: “Al 60% dei nostri clienti piace”. Stessa cosa succede in Svezia, dove mettono il pane sotto il grill per aumentare l’odore di  bruciato. E in Danimarca, dove gli habitué chiedono al panettiere di tenergli da parte le forme più scure”.

Insomma, se sono veri i miei sospetti, potremmo essere davanti a qualcosa di ben più pervasivo e pericoloso di una moda passeggera. Non bruciarsi la pizza? E perché mai.