L’impatto che la cultura del cibo ha su di noi è viscerale. In ogni luogo e in ogni epoca, siamo riusciti ad esprimere questo rapporto in qualunque forma espressiva possibile, dai graffiti preistorici fino all’ormai divorata banana di Cattelan. Ed era scontato che questa relazione sarebbe sfociata anche nel “medium” più dirompente dell’attualità, capace di guadagnarsi in appena sessant’anni dalla nascita la propria dignità artistica: il videogioco. La storia tra videogames e cucina è in fondo ancora acerba ma non pensiate però che non si possa già tracciare una sua evoluzione.
Se nell’età d’oro del settore – che coincide con l’esplosione del fenomeno durante i primi anni ’80 – si poteva trovare rappresentazione del cibo solo nella frutta che Pac-Man divorava o nei differenti funghi incontrati da Mario nel corso delle sue avventure, è con la crescita dell’industria e la nascita di nuovi generi che le cose si fanno interessanti. Su tutti, sono stati i cosiddetti giochi gestionali/simulatori e quelli di ruolo ad accrescere l’esperienza “culinaria” nei videogiochi. Nei primi perché la tendenza a replicare in piccolo le dinamiche di un esercito, una città o un parco divertimenti, è necessariamente approdata ad ogni aspetto dello scibile umano: “Pizza Tycoon”, del 1993, è probabilmente il primo titolo in cui la preparazione di una pietanza (una pizza in tutte le sue varianti) diventa la colonna portante di un gioco, inaugurando un percorso tuttora battuto da molte software house. Nei giochi di ruolo, invece, la questione si fa ancora più densa di sfumature. In questo genere derivato direttamente dai giochi testuali narrativi – inaugurati con “Dungeons and Dragons” e il filone fantasy, fatti di tabelle cartacee e dadi prima che di pixel – la crescita del personaggio accompagna il giocatore durante tutto il corso dell’avventura, viene quantificata in punti esperienza, barra della vita, danno e tante altre statistiche.
Qui il cibo è soltanto lo strumento con il quale ripristinare parte della vita persa, cosa già vista nei “picchiaduro” a scorrimento come “Final Fight” dove il reperimento di una bibita gassata o un hamburger ci traghettava verso la fine del livello. Nei giochi di ruolo, ad ogni frutto, cacciagione o piatto, corrisponde spesso un bonus o addirittura un malus. Cosa mangiare diventa quindi fondamentale rispetto a quello che ci troveremo ad affrontare nel gioco: potremo scegliere un alimento che incrementa la nostra difesa a discapito di un altro che aggiunge qualcosa al nostro potere magico; oppure incappare proprio in una pietanza nociva, che andrà a ridurre uno o più dei nostri valori. A partire da queste fondamenta si è diramato il rapporto tra videogames e cucina fino ad arrivare al creazione qualcosa di inedito. I giochi di food preparing sono diventati una vera e propria realtà del settore.
Tra i più celebri e importanti dal punto di vista storico, non si può non citare “Cooking Mama”. Franchise composto da molti episodi, grazie alle console portatili Nintendo è riuscito a coinvolgere trasversalmente il pubblico fino a trascinare a sé anche persone non avvezze al settore ma affascinate proprio dall’accuratezza della preparazione e della gestione delle ricette. Uscito sul mercato ormai nel lontano 2006, resta l’esempio più popolare del genere. Menzione speciale per “Overcooked”, che ha trasformato l’esperienza di una cucina disordinata e piena di imprevisti in un “party-game” da giocare tra amici senza sosta. Anche il trend inaugurato dai giochi di ruolo ha compiuto passi da gigante, arrivando ad espandersi e specializzarsi oltre ogni aspettativa, soprattutto grazie ai giochi survival. La necessità di sopravvivere ha reso fondamentale non soltanto la preparazione di un piatto (e relativi effetti) ma anche il reperimento degli ingredienti: caccia, pesca, coltivazione, ricerca delle spezie sono divenute delle costanti tanto da sconfinare dal genere di provenienza e contaminare anche altri tipi di gioco. Gli esempi qui potrebbero essere infiniti ma se dovessimo sceglierne i più iconici non potremmo non partire da “Monster Hunter”, gioco di ruolo/action in pieno stile nipponico che ha portato quel principio di bonus in base ai cibi ingurgitati ad una platea più vasta di utenti, incorporando alcune preparazioni tradizionali di pietanze giapponesi. Degno di menzione anche “Don’t Stare”, letteralmente “non morire affamato”. In questo caso, nel corso del gioco si arriverà a disporre di un vero e proprio ricettario capace di rendere succulente anche le viscere di un mostro potenzialmente dannoso.
Ma uno dei punti più alti di questa scalata della cucina nel settore è stata raggiunta dall’ultimo capitolo della celebre saga di Zelda, “Breath Of The Wild”: sebbene non ci sia nulla di davvero rivoluzionario rispetto quanto detto in precedenza, il carattere della ricerca e della preparazione culinaria è così ben rappresentato da elevarsi ad un livello inedito, assolutamente non trascurabile ai fini dell’esperienza di gioco. La stessa Polygon, una delle più famose testate americane di settore, ha chiesto ad alcuni dei suoi redattori di cimentarsi nella realizzazione, in una cucina vera e propria, dei piatti visti del gioco. Il tutto con anche qualche piacevole sorpresa in termini di palato (oltre che tante, tante delusioni).
La storia dei videogames continua a scriversi giorno dopo giorno, sotto i nostri occhi. E il suo rapporto con la cucina continua ad evolversi. Attendiamo trepidanti la tendenza a perfezionare questo rapporto e, magari, alla creazione di un titolo che possa davvero trasportare le tecniche di cucina nel modo più fedele più possibile, convogliandole nel “simulatore di ristoranti” più completo che sia mai stato creato. E che certamente gli appassionati di gaming e gastronomia aspettano da sempre. (Scritto a quattro mani con Valerio Graglia).