La notizia è agghiacciante nella sua semplicità: i soldati dell’esercito israeliano a Gaza entrano nelle case dei palestinesi sfollati per scappare dalle bombe dell’esercito israeliano, aprono le loro dispense e usano le loro cucine per preparare i pasti per i propri commilitoni. Ad aggiungere un twist surreale e 2.0 al tutto, il fatto che questa storia venga raccontata come la cosa più normale del mondo, se non come un elogio allo spirito di adattamento nonché come nuova interpretazione del genere “cucina di guerra”, dal quotidiano israeliano Haaretz, nella sezione Food, con tanto di galleria fotografica e intervista ai cuochi.
Sembrava la classica fake news propagandistica, perché si sa, le guerre contemporanee vengono combattute anche con le armi della disinformazione: e questa pareva un’accusa troppo infame per essere vera. Da un lato milioni di profughi che muoiono di fame, dall’altro l’esercito invasore che si pappa finanche i miseri cibi che spuntano tra le macerie. E invece. C’è voluto poco per verificare la notizia, riportata qualche giorno fa dalla giornalista Rula Jebreal; non è stato difficile trovare l’articolo originale, presente solo sulla versione in ebraico del quotidiano “di sinistra”; aggirare il paywall scaricando il pezzo completo; infine tradurlo con uno strumento online.
L’articolo – firmato da Eitan Leshem, su Haaretz autore di numerosi pezzi a tema gastronomico – è intitolato con un virgolettato: “In tutte le case di Gaza troviamo olive, olio e un sacco di spezie. Ci cuciniamo con sentimenti contrastanti”. La storia è basata sull’intervista a due riservisti, Elam e Nadav, entrambi 37 anni, nella vita avvocato e insegnante, uno sposato e padre. Il racconto parte con loro che sono in guerra da mesi, e dopo un po’ non ce la fanno più a mangiare le razioni confezionate che gli passa l’esercito. Quindi iniziano ad arrangiarsi cercando di cucinarsi da sé, e preparando i pasti per tutto il battaglione: prima facendosi mandare da casa “meno snack e più ingredienti primari”, poi chiedendo alle famiglie dei coloni dove si trovavano a passare (“in un kibbutz abbiamo preparato omelette con uova di galline ruspanti”). E fin qui.
Dicono anche che a un certo punto si sono accorti che si può essere operativi ed efficienti in combattimento, ma comunque trattarsi bene a tavola. E che anzi, “meglio mangiavamo, meglio combattevamo”. Raccontano di giornate passate in prima linea, schivando i proiettili dei cecchini, al termine delle quali raccogliersi attorno a un tavolo e mangiare cibo cucinato è un conforto non solo fisico. “È bello anche che la tavola sia pulita e ordinata, e non per Instagram”, dicono.
Quasi senza soluzione di continuità, il pezzo trascolora dal reportage di guerra al puro taglio lifestyle, ma con un risvolto inquietante: cosa usate come materie prime? “Gli ingredienti base che passa l’esercito, come pasta e riso, ma arricchiti con quello che chiediamo di farci mandare, e con gli alimenti che troviamo nelle case dove stiamo”. Man mano che le truppe di terra avanzano a Gaza, infatti, i soldati vengono acquartierati nelle case dei palestinesi che sono scappati qualche giorno prima. “Una volta abbiamo trovato della farina, e abbiamo fatto le pita”.
A domanda diretta, su ciò che si prova a cucinare e mangiare nelle case delle famiglie di Gaza, sapendo che quelle persone sono state evacuate o sono scappate, la risposta è: “mixed feelings, senza dubbio. Dopotutto usiamo i loro utensili, nelle loro case, mentre loro non ci sono. Ma d’altro canto, dobbiamo pur mangiare. Alla fine, l’esigenza e il desiderio di mangiare aumenta. È importante chiarire che si tratta di case abbandonate, alcune delle quali distrutte o destinate alla demolizione, ed è così che combatte l’esercito israeliano a Gaza”. E il commilitone aggiunge: “Non è come andare in un centro benessere, e spassarsela. Quando trovi il gas è come entrare in un hotel a 4 stelle, perché sai che puoi cucinare. E nella maggior parte dei casi non c’è acqua, quindi non laviamo i piatti”.
Segue la descrizione, quasi come in un reportage di viaggio in un luogo esotico, di quello che si trova nelle dispense dei palestinesi: “Abbiamo osservato che la cucina di Gaza è piena di spezie. In molte case si trovano una varietà di mix nei barattoli. Ci sono anche un sacco di lenticchie, quindi all’inizio abbiamo fatto parecchi piatti a base di lenticchie, soprattutto rosse. E poi ci sono olive conservate, molte delle quali all’assaggio sono eccellenti, ma si trovano anche quelle andate a male. In tutte le case c’è olio di oliva, che ci aiuta a insaporire ogni pietanza. E a volte ti imbatti in qualcosa di speciale, tipo l’aglio, e fai una bella pasta con pomodoro e aglio”.
Col cuore pesante e nessuna voglia, tocca fare un paio di osservazioni a margine. La prima è sul genere “cucina di guerra”: che è un genere di antica tradizione, e con una sua dignità. È basato soprattutto sulla ricerca di surrogati, per quegli ingredienti di importazione che in tempi di autarchia o blocco dei commerci internazionali, non sono più reperibili. Ma anche e soprattutto sull’individuare fonti caloriche in alimenti che non vengono considerati come tali, in periodi normali: La cucina del tempo di guerra di Lunella De Seta, per esempio, inizia con il consigliare tovaglie colorate invece che bianche, perché le macchie si vedono di meno e non c’è bisogno di frequenti “lavature”, e termina con un “elogio delle briciole”, passando per il vero e proprio ricettario, a base di zuppe senza grassi e sostituti del caffè. È curioso che nell’attuale frangente, il genere sia aggiornato dalla parte dell’invasore (si può pensarla come si vuole su quello che sta succedendo a Gaza, sui torti e sulle ragioni, anche se ogni giorno che passa tutto è più chiaro, ma che ci sia un’occupazione militare è un fatto): di solito la cucina di guerra è la cucina di sopravvivenza delle vittime, cioè i civili, che sono sempre quelli che pagano, siano essi dalla parte dei vincitori o dei vinti. Qui assistiamo a un rovesciamento completo.
Come assistiamo a un rovesciamento completo, o meglio a una schizofrenia, se guardiamo la fonte. Haaretz è il giornale dell’intellighenzia israeliana, il foglio che ospita voci iper critiche nei confronti del governo di Tel Aviv come Amira Hass, il sito che negli ultimi mesi ha pubblicato articoli dai titoli inequivoci: “Mezzo milione di palestinesi soffre la fame”; “Affamare deliberatamente i civili di Gaza è un crimine di guerra” e così via. Il fatto che un articolo di segno opposto venga pubblicato solo nella versione in ebraico può essere indice di consapevolezza: la stiamo facendo grossa, quindi ce la teniamo per noi. O peggio ancora, di un doppio standard: farsi belli verso la comunità internazionale con le posizioni critiche, tenersi buono il pubblico di casa con i pezzi teneri sui “nostri ragazzi al fronte”. Se poi questo sia addirittura parte di una strategia volta a rafforzare, in maniera indiretta ma non meno efficace, l’immagine pluralista e tollerante di quella che viene definita “l’unica democrazia del medioriente”, beh è una conclusione che lasciamo agli esperti di geopolitica.