La biga è un pre-impasto utilizzato per la panificazione con metodo indiretto (generalmente per pane e pizza), ottenuto dalla miscelazione di farina, acqua e lievito di birra: un composto tendenzialmente asciutto che ci consente di garantire determinate peculiarità al prodotto finito. Credetemi però, è più facile se non ve la faccio semplice: dopo questa guida per veri secchioni della biga saprete perfettamente cos’è, come si prepara e quali sono i suoi usi ideali per i vostri lievitati.
Per le differenze rispetto al poolish vi rimandiamo ad altre pagine, oggi ci concentriamo sulla biga.
Fa parte della famiglia dei pre-fermenti, la biga. Tecnicamente, un impasto che la utilizza è definibile come indiretto, ossia un processo nel quale la fase di miscelazione e unione dei vari ingredienti è divisa in due parti:
- Un pre-impasto, in cui si mescolano di solito acqua, farina e lievito;
- Un re-impasto successivo alla prima maturazione, in cui si aggiungono gli ingredienti mancanti.
Una tecnica nata per la panificazione, e approdata oggi con una diffusione spasmodica anche nel mondo pizza, spesso senza nemmeno avere motivazioni valide per giustificare il suo utilizzo.
La biga classica, didattica, come Piergiorgio Giorilli ce l’ha insegnata (codificandone il metodo) prevede da manuale dosi, temperature e tempi di maturazione ben precisi:
- Farina 00 o 0 (W > 300);
- 44% di acqua sul peso della farina;
- 1% di lievito sul peso della farina.
In base al tempo di riposo distinguiamo due tipologie distinte e conseguenti temperature di esercizio:
- Biga corta, con maturazione di 16 ore a una temperatura di 18-20 °C;
- Biga lunga, con maturazione di 24 ore in cella frigorifera a 4-5 °C e le successive 24 a 18-20 °C.
Il comportamento della biga
Dosi e tempi presentati si riferiscono infatti alla cosiddetta Biga Giorilli, ma è bene precisare che è possibile effettuare una biga con altre tipologie di farina, con forza e indice di assorbimento diversi.
Prima di scervellarci con le naturali evoluzioni però, cerchiamo di comprendere insieme il comportamento di una biga.
Perché è necessario bilanciare idratazioni, tempi e temperature?
Perché la biga va impastata poco?
Perché dobbiamo stare attenti a far maturare la biga in un ambiente stabile?
Anzitutto, ciò che accomuna ogni biga è l’importanza di un impasto breve, che deve solo permettere alla farina di assorbire tutta l’acqua usata per scongiurare la formazione di grumi.
Una biga ben fatta deve rimanere grezza, separata, con una temperatura finale di 20-21 °C; se troppo lavorata rischia di maturare prima del dovuto sviluppando acidità e odori forti, negativi per la struttura del lievitato che preparate. La biga matura, leggermente gonfia, ha un buon profumo, simile a quello dello yogurt.
Va da sé, che un’ulteriore prerogativa perché la maturazione sia lenta e graduale è un’idratazione minima, inferiore all’assorbimento farinografico della materia prima utilizzata ma molto vicino a tale limite. In poche parole, dovete semplicemente assicurarvi che tutta la farina sia idratata, senza spingervi troppo oltre; in caso contrario si andrebbe incontro a una fermentazione accelerata e meno controllabile.
Tipologia e forza della farina sono necessarie per avere un equilibrato rapporto tra resistenza ed elasticità, in modo da sostenere tutte le ore necessarie per lo sviluppo della biga stessa.
Le altre bighe
È bene sottolineare un concetto molto importante: le dosi e i tempi “didattici” già accennati hanno valenza generica, che cambiano a seconda di farina, temperatura, umidità dell’ambiente e uso finale; va da sé che in questo caso cambieranno anche temperature e tempi di esercizio, in quanto un maggior quantitativo di acqua e un ambiente più caldo richiedono periodi di riposo inferiori, e viceversa.
Come già detto infatti, utilizzando una percentuale di acqua maggiore la fermentazione risulta accelerata, così come un ambiente fisso magari a 22 °C anziché 20.
Viceversa, minore sarà l’idratazione o la temperatura, maggiore sarà la maturazione necessaria perché la biga possa ritenersi pronta.
Tenete sempre a mente che la biga nasce in tempi in cui le farine italiane erano poche e aventi bene o male le stesse caratteristiche reologiche. Oggi sul mercato sono presenti un innumerevole quantità di prodotti diversi, con percentuali di assorbimento minimo, di fermentazione e di forza variabili.
È possibile fare una biga con una farina differente da quella da manuale?
Certo che sì, soprattutto tenendo conto che la Biga Giorilli nasceva per scopi ben precisi, quello di conferire struttura, shelf-life e sapore ai prodotti di un tempo; oggi, grazie a materie prime variegate e di qualità, tali caratteristiche sono raggiungibili anche da un buon impasto diretto condotto a dovere, mentre gli impasti indiretti potrebbero acquistare senso per altre necessità o preparazioni, come vedremo in seguito.
Come è logico pensare tuttavia, variando anzitutto l’assorbimento minimo sarà necessaria più acqua perché tutta la farina sia idratata.
Più acqua però può significare meno ore rispetto alle 16 necessarie alla maturazione, o una temperatura più bassa.
Volete fare una biga con una farina integrale? Perfetto, ma la fermentazione sarà sicuramente accelerata a causa del contenuto cruscale presente all’interno, quindi il pre-impasto sarà sicuramente pronto prima.
Insomma, non esiste una regola ferrea ed empirica: ciò che dovete tenere a mente è la bontà del risultato finale di una biga pronta e perfettamente matura, che schematizziamo nuovamente per fissare il concetto:
- Gonfiore localizzato in alcuni punti, ma pochissimo aumento di volume, in quanto non è stato formato il glutine necessario a intrappolare;
- Profumo gradevole, simile a quello dello yogurt;
- Se avvicinate l’orecchio, la biga deve “frizzare” leggermente;
- Se avete un pH-metro a disposizione, il valore ottimale si aggira tra il 4.2 e il 4.5.
L’unico modo per realizzare una pre-fermento perfetto con un determinato tipo di farina è effettuare degli esperimenti, stabilizzando al massimo le variabili di ambiente come temperatura e tempi per ridurre il margine di errore.
Come si prepara una biga
Il processo per realizzare una biga è in realtà molto semplice, fattibile anche a mano.
Anzi, in caso non possediate un’impastatrice a spirale (soprattutto una con possibilità di invertire la marcia) è addirittura consigliabile, in quanto con una planetaria rischiereste facilmente di amalgamare troppo il composto.
Unite gli ingredienti insieme e fermatevi appena tutta la farina risulterà idratata.
Eventuali frammenti duri e non miscelati rimarranno inevitabilmente nell’impasto finale, formando fastidiosi grumi.
Al contrario, come già detto, una biga troppo impastata maturerà troppo velocemente sviluppando acidità e forti odori.
Chiudete la biga in un contenitore a chiusura ermetica o sigillato con pellicola, e riponetela in una cella a temperatura costante per un tempo definito.
Il consolidamento delle variabili di ambiente è fondamentale per ridurre l’errore di un processo che, se condotto in maniera anomala, può portarvi lontano dal risultato che volete ottenere.
Per questo motivo tipicamente vengono utilizzati i cosiddetti “ferma-biga”, celle stabilizzate a temperatura costante dai 18 ai 20 °C, necessari alla corretta maturazione del pre-impasto.
Una volta pronta, la biga viene unita al resto degli ingredienti dell’impasto, che viene chiuso e utilizzato per la ricetta scelta.
Il quantitativo da utilizzare dipende da diversi fattori, tarati unicamente sul tipo di prodotto che volete utilizzare e dalle modalità di gestione di tutto il processo.
Tenete infatti sempre a mente che il vostro pre-imposto sarà considerabile a tutti gli effetti la vostra “massa lievitante”; banalmente, più ne utilizzate minori dovranno essere i tempi di lievitazione successivi, in quanto la fermentazione sarà molto più accelerata e rischiereste, esasperando la maturazione, di ritrovarvi in fretta con un impasto scarico.
Di norma, se volete accentuare i pregi sopra riportati aumentate la quantità di pre-fermento utilizzati.
Fate attenzione però, che così come i vantaggi, anche gli svantaggi cresceranno in maniera direttamente proporzionale; un impasto con un’alta percentuale di biga dovrà essere gestito correttamente per non risultare tenace sia in stesura che, soprattutto, al morso.
In linea generale, potete cominciare a sperimentare con una quantità indicativa pari a 1/3 calcolata sul peso della farina totale.
Ad esempio, se dovete impastare 1 chilo di farina, il cosiddetto innesto della biga corrisponde a circa 330 grammi, mentre i restanti 670 grammi vengono usati nel re-impasto, insieme all’acqua che rimane e agli altri ingredienti.
Perché scegliere la biga e quando usarla
I vantaggi più evidenti di tale tecnica riguardano la fermentazione lattica che ha luogo durante la maturazione dell’impasto finito: con la produzione di acidi organici a beneficiarne sono gusto, profumo e sviluppo della struttura e degli alveoli, i piccoli fori che si formano nella pasta.
Migliora anche la conservabilità, e la maggiore acidità dell’impasto garantisce più resistenza contro i microrganismi patogeni cui si deve la crescita delle muffe.
Last but not least, i tempi di lievitazione si riducono sensibilmente, aiutandoci a dare all’impasto finale una struttura migliore.
E tuttavia, come già detto, tale tecnica è sono consigliabile solo in presenza di ambienti (o di strumenti) adatti alla maturazione, con temperature e umidità costanti. Inoltre, un impasto indiretto gestito male, con punte di acidità importanti e un pH sballato (impastato troppo o lasciato a maturare per un tempo eccessivo) vi restituirà risultati per lo più scadenti per i rischi legati alla maturazione eccessiva del preimpasto, che provoca la rottura della maglia glutinica e un lievitato pessimo.
Infine, sciogliere una biga a mano nell’impasto finale è impensabile, perché a causa della bassa idratazione richiede un’energia cinetica e una costanza assicurate solo da movimenti meccanici come quelli di planetarie e impastatrici. In caso contrario, il pre-impasto si scioglie male lasciando numerosi grumi.
In definitiva, se non avete le condizioni adatte non è il caso di affidarsi a preparazioni più complesse come i preimpasti.
Un impasto diretto ben fatto spesso è superiore per scioglievolezza e omogeneità, mentre gli impasti indiretti (soprattutto la biga) assicurano maggior tenacia che si ripercuote sul morso, indicata per la pizza in teglia o la pizza alla pala romana, ma sconsigliata nella pizza napoletana dove la trappola dell’impasto gommoso è decisamente più insidiosa, avendo una cottura più fulminea.
Ciò non significa che non si facciano ottime pizze napoletane con una biga, o teglie spettacolari con il metodo diretto; dipende sempre da come vengono gestiti i relativi impasti.
Di norma potete attenervi a questa regola generale: sorella biga vi aiuta ad avere alveoli grossi e irregolari, oltre a una struttura salda e sviluppata, una maggiore spinta verso l’alto e una maglia glutinica solida, grazie alla prevalenza di acidi organici. La mollica sarà più “ariosa”, morbida e aromatica, con un sapore pieno dovuto alla produzione di acido lattico durante la fermentazione. Caratteristiche che la rendono preferibile per pizze in teglia alla romana, focacce morbide, grandi lievitati e pagnotte dalle dimensioni sostenute.
Tenete però presente che la biga porta molta tenacità nell’impasto finale, che se non spezzata a dovere con farine più deboli nel re-impasto si ripercuotono inevitabilmente sul morso; specialmente nella teglia romana e nelle focacce quindi, sperimentate la consistenza contrapponendola a quella di un diretto per capire se è di vostro gradimento.
Cosa cambia rispetto al lievito madre solido?
So che tutti questi discorsi vi ricordano qualcosa, è inutile negarlo.
Vantaggi, pH, fermentazioni, persino la percentuale di idratazione; caratteristiche simili le abbiamo già ravvisate nella preparazione del lievito madre solido, del quale abbiamo già ampiamente trattato sia la teoria di base che la ricetta completa.
Fondamentalmente è vero, le peculiarità di una biga si avvicinano molto a quelle del lievito madre, risultando però molto meno variabili, più stabili e controllabili di quest’ultimo.
La biga fa parte delle cosiddette “fermentazioni miste”, così denominate da professionisti come Renato Bosco, in quanto sfrutta in maniera più corposa sia la fermentazione lattica sia quella alcolica prodotta dal Saccharomyces Cerevisiae usato come starter, nome di battesimo del nostro cubetto compresso.
Fermentazione alcolica che, nel lievito madre, pur essendo presente lo è in maniera inferiore, in quanto (lo ricordiamo) è un impasto di acqua e farina lasciato maturare per un tempo più o meno lungo, durante questo periodo lieviti di diversi ceppi e i batteri lattici e acetici (lactobacilli e streptococchi) presenti nell’aria e nella farina avviano il processo di fermentazione.
Un processo, quello della biga, più facile, veloce e standardizzabile, considerando anche tutte le cure necessarie per la perfetta conservazione del lievito madre di cui abbiamo già parlato nella ricetta dedicata.
Il lievito madre al contrario sfrutta in maniera preponderante la fermentazione lattica, producendo acidi organici che migliorano i sapori, i profumi e lo sviluppo degli alveoli. L’acidità dell’impasto garantisce inoltre più resistenza contro i microrganismi causa della crescita delle muffe, fattore che aumenta notevolmente la shelf-life (durata) dei lievitati; pensate ad esempio al panettone (definibile come tale solo se realizzato con lievito madre) che, grazie anche a grassi, zuccheri e umidità, riesce a durare anche qualche mese.
Il rovescio della medaglia è la gestione laboriosa del lievito madre, specialmente per il contesto domestico, e che soprattutto nel primo periodo di “vita” del prefermento è soggetta a non pochi sprechi.
Uno dei campi dove l’utilizzo del lievito madre inizia ad acquistare veramente senso è quello del pane, che ben si presta all’impiego di farine non di grano tenero e con meno glutine, e che necessitano quindi di un’agevolazione in termini di struttura. In tal modo il pane, peraltro, si conserverà più a lungo.
Il campo principale tuttavia è e rimane quello dei grandi lievitati: un impasto complesso, sulla cui maglia glutinica grassi, uova e sospensioni esercitano il loro peso, richiedendo un supporto non indifferente per il quale entra in gioco il ruolo fondamentale di un prefermento che non deve essere perfetto, DI PIÙ.
Nella maggior parte dei casi, il lievito solido viene sottoposto in contesto professionale a una lavorazione molto precisa e accurata, proprio per soddisfare i delicati parametri richiesti dalla pasticceria. Di fatto, ciò implica un trattamento più lungo che aiuti a raffinare e incordare l’impasto, stratificando il glutine.
In definitiva il mio consiglio è il seguente: evitate anzitutto di fidarvi dei pregiudizi e delle leggende metropolitane, spesso parole al vento e decisamente montate nel campo della panificazione.
Impasti diretti, indiretti e lievito madre sono ugualmente digeribili: ciò che cambia davvero è la struttura dell’impasto, come già specificato.
Una volta messe da parte le fesserie, concentratevi anzitutto sul tipo di risultato che volete realizzare, e quindi sulle vostre possibilità:
- Siete appassionati di grandi lievitati e avete cura particolare nel rinfrescare e tenere attivo il vostro lievito solido? Perfetto, allora usatelo senza remore;
- Volete fare del pane ma non avete il lievito madre? Andate di biga tranquilli.
A livello di profumi perderete sicuramente qualcosa in quanto a complessità aromatica, ma non in struttura; - Dovete fare della pizza o della focaccia?
Lasciate perdere il lievito madre, non vi porta a nessun beneficio riscontrabile.
Fate esperimenti e confronti tra diretto e indiretto, e scegliete la vostra via.
[ Crediti: Piergiorgio Giorilli, Carlo Di Cristo ]