A morte la tradizione: Il buonappetito

A morte la tradizione: Il buonappetito

Se avessi un euro per tutte le volte che ho letto su un menu la frase “l’innovazione incontra la tradizione” sarei ricco: non c’è slogan più utilizzato.

Capisco il perché: da un lato si vuole rassicurare, la “tradizione” evoca le nonne, il comfort food; dall’altro si vuole affascinare promettendo qualcosa di nuovo, di inedito.

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Spesso poi mi siedo a tavola in questi ristoranti e mangio piatti classici cui viene aggiunto un errore. Il fatto è che molti di quelli che scrivono “l’innovazione incontra la tradizione” non si chiedono davvero cosa significhino “tradizione” e “innovazione” in cucina.

Per tradizione spesso si intente un fumoso “fatto come un tempo”. Ma cosa significa esattamente? Cioè fatto come la prima volta che è stato codificato?

La cucina è diversa dalla pittura, è materia viva, che cambia giorno per giorno con il mondo che le è attorno. Un restauratore che debba risistemare un dipinto di Leonardo si chiede, prima di tutto: com’era cinque secoli fa? Quali colori utilizzava il pittore? Quali sostanze? E tenta quanto più possibile di ripristinare il passato.

Un cuoco che si confronti con un piatto “classico”, invece, fa un lavoro più simile a quello di un regista teatrale che debba mettere in scena, chessò, l’Otello di Shakespeare. Perché anche il teatro è materia viva, fatta di persone, che ha luogo nella contemporaneità. Quindi la domanda giusta non è “come veniva rappresentata nel Seicento?” ma “quali erano le intenzioni di Shakespeare? Che emozioni voleva trasmettere con l’Otello? Il dubbio? Il tradimento? La gelosia? Il conflitto?”

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Un buon regista – che sia celeberrimo o lavori in una piccola compagnia non conta – si chiede questo: qual è il cuore della questione?

Lo stesso deve fare un cuoco che si confronti con i “classici”: andare alla sostanza. Qual è l’anima della parmigiana di melanzane? Se capisci qual è il centro – cioè che è un piatto a base di melanzane, pomodoro, formaggio, goloso, dolce, solare e conviviale – puoi poi declinarla come vuoi.

Se si affronta la “tradizione” in questo modo la si porta avanti, perché la si adegua al tempo in cui si è, alle tecniche, alle tecnologie, alla cultura, ai costumi del momento.

Se la famiglia di Cassino che durante la seconda Guerra Mondiale ospitò i soldati americani non fosse stata disponibile a fargli mettere bacon e uova liofilizzate della razione K nella loro cacio e pepe non sarebbe mai nata la carbonara. Parafrasando l’opera d’arte di Maurizio Nannucci che c’è alla Galleria d’Arte Moderna di Torino, “All cook has been contemporary – Tutta la cucina è stata contemporanea”.

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Del resto tanti dei grandi piatti della “tradizione” italiana non hanno secoli di vita, ma sono nati del Dopoguerra.

Se si affronta la tradizione in maniera invece filologica – riproducendo le ricette così come erano nel momento in cui sono state codificate – allora non parliamo più di cucina, ma, nel migliore dei casi, di storia della gastronomia. Oppure di folklore o, nella peggiore eventualità, di anticaglie: il celebre quadro il Managiafagioli di Felice Carracci è invecchiato molto meglio della ricetta della zuppa che immortala, che oggi probabilmente riterremmo immangiabile, così come qualsiasi piatto di mezzo millennio fa.

Se tradizione volesse dire “difendere il passato” mangeremmo solo polenta sciapa e berremmo vino acido.

Ma, badate, non è un invito al “liberi tutti”. Anzi. Se tradizione significa capire l’essenza di una ricetta che già esiste e farla vivere qui e ora è una sfida dura, che richiede non solo buone mani e buon palato ma una bella testa.

E una grande responsabilità: così come Mozart nelle mani di Riccardo Muti o Zubin Mehta è sempre Mozart ma è anche Muti o Mehta, così una lasagna prende sfumature diverse anche se la interpretano i buoni trattori italiani o addirittura i cuochi più innovativi, sia Massimo Bottura o Niko Romito. Ma sempre fortissimamente lasagna rimane.

Per quel che riguarda ciò che significa fare innovazione in cucina, ne parliamo un’altra volta. Oppure chiamate Ferran Adrià che un po’ se ne intende.