Sapido, umami, grasso e una tendenza dolce piuttosto spinta: sono questi di fatto i sapori che dominano la scena gastronomica attuale. Ma per quanto tempo sarà ancora così? La cucina, si sa, racconta la cultura di un territorio, si fa portavoce di tradizione certo, ma anche di scoperte e tendenze che negli anni hanno seguito, in Europa, tre periodi ben precisi: la Nouvelle Cuisine, la Cucina Molecolare e il movimento spagnolo, la Cucina Nordica.
La prima nasce in Francia negli Anni Settanta e innova i canoni tradizionali dell’alta cucina francese che all’epoca era incentrata su piatti molto elaborati, un uso abbondante delle salse, l’utilizzo di creme grasse e pesanti. Si punta ad alleggerire piatti e gusti senza dimenticare, ça va sans dire, la tecnica che è alla base della cucina più studiata al mondo.
Con gli Anni Ottanta nasce la gastronomia molecolare per opera, anche, del fisico e gastronomo Hervé This: da lì a poco le trasformazioni chimiche e fisiche che avvengono negli alimenti durante la loro preparazione conquistano gli chef: Ferran Adrià, Heston Blumenthal e Pierre Gagnaire diventano portavoce di un movimento culinario che applica i principi scientifici alla preparazione del cibo e che oggi vede tra i suoi pochi ma appassionati interpreti l’italiano Andrea Camastra fresco di una stella Michelin nel suo Nuta in quel di Varsavia.
Inizia invece nel 2004 il fenomeno della Cucina Nordica seguito ormai in ogni parte del globo: fermentazione, cibo selvatico e foraging sono alla base di questa espressione culinaria che ha in Renè Redzepi, chef del Noma, il suo indiscusso promotore.
Il ruolo dell’acidità
Anche grazie all’utilizzo delle fermentazioni (ri)lanciato dalla cucina nordica, il ruolo dell’acidità nella cucina contemporanea è cambiato, trasformandosi da mero elemento di contrasto di un piatto a elemento fondamentale per donargli struttura. Troppo spesso infatti, il sapido, l’umami e il grasso che dominano la scena moderna lasciano poco spazio alle sfumature di gusti con una tendenza, pressoché riconosciuta, ad omologare e appiattire i piatti.
Ed ecco che, ancora una volta, l’acidità (che ha in Michel Troisgros da sempre il suo primo seguace) può fare la differenza. Ne sono convinti i fondatori di Acetyca, la start up di ricerca biotecnologica nel campo degli acetobatteri che ha aperto la prima scuola che esplora il gusto acido: “L’acidità – commentano Andrea Bezzecchi, Paolo Tucci e Beatrice Guzzi – è una firma gustativa unica mediterranea, italiana della gastronomia ed è capace di essere eterea nei profumi, più complessa, meno stratificata ed è in grado di donare non mono ma multi note che alleggeriscono il piatto, rendendo i gusti meno concentrati”.
Aceti aromatizzati
Non è però solo con l’aceto di vino che in cucina si può fare la differenza. Lo sa bene lo chef Luigi Taglienti che nel suo ristorante Io, nel cuore di Piacenza, lavora in modo complesso e stupefacente sull’acidità citrica che diventa signature, mai invadente, di ogni portata. Lo sa altrettanto bene Enrico Costanza che vive tra Piemonte e Liguria, è di origine sarda, e di mestiere fa il culinary gardener. Dopo essersi laureato in Lettere e Filosofia a Bologna si è appassionato all’arte del giardinaggio ed ha studiato e lavorato tra Firenze, l’Inghilterra, l’America, la Francia e la Svizzera. “La mia formazione come giardiniere – spiega Costanza – è iniziata lavorando con lo chef vegano Simone Salvini, per poi occuparmi di consulenze con gli chef”. Era lui a curare l’orto del tre stelle Michelin Enrico Crippa per il ristorante Piazza Duomo di Alba (Cn), ma Costanza, che insegna anche all’Università di Pollenzo, ha collaborato a diversi progetti tra cui, non da ultimo, quello che ha visto la nascita della serra di Michelangelo Mammoliti nel nuovo ristorante La Rei Natura – Il Boscareto a Serralunga d’Alba (Cn).
La nuova frontiera a cui sta lavorando con il gruppo di Acetyca è la realizzazione di aceti aromatizzati plant based reali, con macerati vegetali e aceti di qualità anche se la nuova frontiera del gusto, in questo caso, potrebbe essere l’acqua acetica. “Ho sempre realizzato aceti aromatizzati – spiega ancora Costanza – sia da aceto rosso che da aceto bianco. La novità oggi è l’acqua acetica: un distillato di mosto del vapore acetico del mosto stesso. Gli aceti sono ottimi prodotti, ma portano con loro sempre un sentore di vino, mentre l’acqua acetica ha una base completamente neutra: ha l’acidità dell’aceto ma non il suo riverbero. Mettendo in macerazione le erbe in questo modo emerge brillantemente il singolo aroma, il suo gusto e anche l’olfatto ha una marcia in più perché sembra proprio un profumo”.
Ovviamente, l’aspetto più importante della produzione è avere le giuste materie prime: “Metto le erbe nell’acqua acetica e dopo una settimana le sostituisco con quelle fresche: è un procedimento che puoi fare all’infinito ed è straordinario perché l’acqua acetica continua ad assorbire l’aroma delle erbe e ne risulta una grande intensità. In questo modo si ottiene un aceto profumatissimo che si può usare per qualsiasi cosa: dalla bernese a una insalata o a una misticanza molto semplice”.
Quali erbe regalano più acidità
In un mercato come quello italiano in cui non c’è una grande scelta tra gli aceti aromatizzati (fatto salvo per aglio, rosmarino o peperoncino) si potrebbero creare molte combinazioni e realizzare anche dei blend. Su scaffali che rispecchiano, con aceti a basso costo e scadenti, come il consumo mainstream sia totalmente privo di cultura potrebbe essere interessante vedere aceti aromatizzati con erbe insolite e valutare il gradimento dei consumatori. Del resto gli aceti aromatizzati sono regolamentati dall’art. 53 delle legge 238/2016 il cui articolo 1 recita: “All’aceto possono essere aggiunte sostanze aromatizzanti, mediante macerazione diretta o mediante impiego di infusi, nella misura massima del 5 per cento in volume, o altri aromi naturali come definiti dalle normative dell’Unione europea e nazionali in vigore. È consentito aromatizzare l’aceto di mele con il miele”.
E poiché, dunque, la prima forma di acidità è quella vegetale proviamo a conoscerne qualcuna: “Metterei al primo posto il dragoncello – spiega Enrico Costanza – dal sapore tenue, elegante, buono anche se è difficile da preparare, ma c’è anche lo shiso, un’erba conosciuta tra gli chef e meno tra i consumatori, che possiede un aroma anisato e ricorda il basilico. O ancora il finocchio marino, pianta erbacea perenne che cresce nelle regioni mediterranee o la Aloysia citriodora che resatituisce un gusto super complesso e strutturato, dai sentori tra la menta e il limonato”.