Pensavate di sapere tutto sulla pasta madre? Preparatevi a cambiare idea. Se mi seguite un attimo in Alaska, vi spiego perché. Molti di noi avranno sentito racconti e leggende sulla pasta acida all’epoca della corsa all’oro in California, nella seconda metà dell’800. I cercatori, e i pionieri in generale, che si spostavano continuamente in territori inesplorati, sono stati per necessità anche i fondatori della panificazione contemporanea: mentre tutto il mondo scopriva le comodità del lievito di birra compresso, gli americani non avendo i frigoriferi nelle carovane, si dovevano arrangiare con il lievito naturale. Tanto che poi, più di un secolo dopo, quando queste paste acide furono analizzate a livello scientifico in un laboratorio di San Francisco, e si scoprì qualcosa in più sulla loro variegata composizione microbiologica, fatta di lieviti e batteri, una di queste nuove specie di batteri lattici venne battezzata Lactobacillus sanfranciscensis.
Quello che però forse molti ignorano, o almeno che io non sapevo, è che la pasta madre ha giocato un ruolo da protagonista ancora più fondamentale, direi vitale, in un’altra corsa all’oro, in un’altra colonizzazione di territori ancora più estremi della Sierra Nevada: il gelido e inospitale Alaska. Avere o non avere una sourdough pot, un vasetto di pasta acida, poteva fare la differenza tra la vita e la morte, in un posto dove la natura non offre molto, e bisogna fare affidamento su scorte alimentari con ottimo rapporto tra peso e riuscita finale. Arriva un libro a raccontarci questa storia, questo mondo alieno eppure così recente – parliamo di un periodo che parte a cavallo tra ‘800 e ‘900 ma si spinge fino alla prima metà del secolo scorso: Alaska pasta madre, nell’originale Alaska sourdough, di Ruth Allman. Lo pubblica Slow Food editore, ed è un volume fuori dall’ordinario già solo nella forma: inizia infatti con la traduzione dello scritto di Allman, composto da una introduzione generale dal taglio molto colloquiale, seguita da un cospicuo numero di ricette, prima dolci e poi salate. A metà libro il testo finisce, e inizia l’originale inglese, riportato in una specie di copia anastatica del manoscritto, un bel corsivo, con tanto di disegni: molto piacevole a vedersi, e anche utile per sopperire a qualche oscurità della traduzione.
Alaska Sourdough è stato pubblicato per la prima volta nel 1976, l’autrice è morta nel 1989, a 84 anni. La storia di Ruth Allman, nata Collin, meriterebbe un libro a sé: la racconta un po’ Angelo Carrillo nell’introduzione, vi basti pensare che con il marito, nell’immediato dopoguerra, fondò il Tongass Lodge, un rifugio utilizzato come base di partenza per pescatori e cacciatori, raggiungibile solo in volo o in barca. Al di là della bellezza dell’edizione, e dello squarcio storico-antropologico che apre, il libro spalanca lo sguardo su un modo completamente diverso di intendere la pasta madre.
Molto interessante per il panificatore amatoriale che negli anni ha sviluppato competenze pratiche e approfondito conoscenze teoriche, perché ribalta completamente una serie di dati acquisiti. Certo alcune particolarità dipendono dalle condizioni estreme dell’Alaska, altre suppongo siano figlie di un gusto tipicamente americano. Eppure, sappiatelo: la pasta madre è anche questo. Che cosa intendo? Mi spiego con qualche esempio. Anzi, con le cose che ho imparato in questo viaggio spaziotemporale nell’Alaska del secolo scorso.
1. Il nome della cosa
Oggi i più fissati, i più “olistici”, hanno preso a battezzare la pasta acida: Peppino, Ermenegilda (a seconda che lo si intenda maschio come il lievito o femmina come la madre) e via dicendo. Perché la pasta madre è un organismo vivente, dicono, è come un animale domestico. Ora, noi sappiamo che non è propriamente così, ma comunque. Il punto è che in Alaska succedeva proprio il contrario: erano le persone a essere chiamate pastamadre, addirittura un’intero popolo era definito da questo alimento. Riporta l’edizione del 1941 del dizionario Webster: “Sourdough – pioniere o cercatore d’oro in Canada o in Alaska”. Un po’ come quando in Francia a noi italiani ci chiamano maccheronì.
2. Pass
Oggi chi prova a viaggiare da un paese all’altro, soprattutto da un continente all’altro, trasportando del cibo, può andare incontro a vari tipi di problemi e ostacoli burocratici: per questioni commerciali, di dazi, sanitarie e così via. Al contrario, all’epoca della corsa all’oro nel Klondike, “la polizia a cavallo canadese impediva l’ingresso al Chilkoot Pass a qualunque cercatore non potesse contare su almeno un anno di provviste”. E tra queste provviste, più leggeri del cibo il lattina, meno soggetti al congelamento delle patate, c’erano sempre sacchi di farina e secchi di pasta acida.
3. Come si conserva la pasta madre, e dove
“Più di un viaggiatore invernale ha dovuto avvolgere la sua pentola in un manicotto di tela e portarsela a letto, per evitare a lei di gelare e a se stesso di rimanere senza cibo l’indomani”. La pasta madre, lo sappiamo, lavora bene a temperature medie, in un range abbastanza ampio tra i 10 e i 30 gradi (nella parte bassa della forbice sono più attivi i batteri, in quella alta i lieviti). Noi oggi, in un clima temperato e nelle nostre case ben riscaldate, abbiamo il problema di tenerla a freno, e spesso ricorriamo al frigo per rallentare. Con temperature sottozero invece il rischio era opposto, perciò la pot veniva appesa sopra la stufa.
Il contenitore? Il vetro è a rischio rottura, il metallo mai, neanche per il cucchiaio con cui si mescola (“innescherebbe una reazione chimica”). “Stando ai vecchi pionieri, l’ideale è un secchiello di legno, della capacità di circa tre litri e mezzo, o più”. Ma in casi estremi, come quello della spedizione per scalare il monte McKinley, la si metteva anche direttamente nella farina: un sacco di centotrenta chili portato a dorso di mulo, in cima al quale c’era lo starter. “Ci versarono l’acqua dei ghiacciai, e prepararono il tutto direttamente nel sacco, quindi arrotolarono la pasta sull’estremità di un bastone, cuocendola sul fuoco di un falò”. Riuscite a immaginare questa specie di marshmellow di pane?
4. Come rinfrescare la pasta acida
230 grammi di starter
240 grammi di farina
480 grammi di acqua
Avete capito bene, non ho invertito per errore le proporzioni: l’acqua è il doppio della farina, ovvero abbiamo un’idratazione del 200%. Noi siamo abituati alla pasta madre solida (idratata al 45-50%) o al licoli, una crema di farina e acqua in pari misura. Al massimo, avevo sentito di certi maestri boulanger francesi che rinfrescano con il 130% di acqua. Ma il doppio? Ecco, questa è una cosa che dipende dalle condizioni di temperatura: molto probabilmente una idratazione maggiore attiva gli enzimi più velocemente e questi danno maggior alimento ai lieviti (trasformando gli amidi in zuccheri). Ma come sarà stato il sapore di questi starter? Non ci resta che provare – anche se alle nostre latitudini il rischio di creare una sbobba acidissima è forte.
5. Come creare il lievito naturale
Ferme restando queste proporzioni, le indicazioni per creare la pasta madre in Alaska sono: zucchero (2 cucchiai), farina (240 grammi), e mezzo litro di acqua di cottura delle patate, bella densa. Acqua di patate? Anche qui, bisogna dedurre che si arrangiavano: dove potevano prenderla, la frutta da far macerare? E però: la prossima volta che facciamo il purè, magari un po’ di quell’acqua…
Le ricette vere e proprie, poi, sono un mondo: una specie di universo parallelo. Vi basti pensare che la sola pasta madre, senza altra farina, era la base per i pancake: con aggiunta poi di uovo, zucchero, olio e bicarbonato (per ottenere la reazione chimica acido-basica che crea ulteriore CO2), e via, cuocere velocemente prima che si sgonfi.
Il pane poi è tutta una poesia: anche qui, starter in maggior parte, con l’aggiunta solo di un po’ di farina, sale e olio. Ma ancora, la pasta acida costituiva la base di una serie di preparazioni, soprattutto dolci, dove noi oggi non ci sogneremmo mai di metterla: biscotti di pasta madre, muffin di pasta madre, waffle di pasta madre, torte, ciambelle, e l’impareggiabile “baked Alaska”, un gelato in crosta di pasta madre e meringa. Seguiteli per altre ricette.