Immaginate una frittura così perfetta che il CROK della panatura è lo stesso degli spot sulle patatine.
Ora immaginate di essere seduti in una calle ombreggiata, mentre tutto intorno a voi, persino il clacson dei vaporetti addolcitosi per l’occasione, vi dice che è primavera.
Bene, quelli di voi che sono stati così bravi da immaginare persino il sapore del piatto bello caldo, possono anche risparmiarsi il viaggio fino a Venezia.
Per tutti quelli che invece a un’idea virtuale preferiscono una sgranocchiata reale, ecco che un giro in città, tra Aprile e Maggio, regala l’opportunità di assaggiare quei piatti storici della Laguna in cui l’olio bollente dà il meglio di sé, vestendo di una corazza golosa granchi, seppie, gamberi, calamari, sarde e verdure.
Guai però a chiamarla frittura: a Venezia si dice “scartosso”, cioè cartoccio: gli ingredienti, una volta estratti dalla padella, vengono sistemati in un cono di carta paglia e magari accompagnati da qualche tocchetto di polenta arrostita.
A quelli di voi che hanno la mano alzata e si preparano a dire che lo scartosso è un tipo di street food, rispondo con un silenzio perplesso.
Il fatto è che i cartocci risalgono al 1700 e alla tradizione dei fritolini (o fritoini) sparsi in città: erano locali in cui si poteva comprare il pesce fritto a poco prezzo (in particolare quello di taglia piccola, che non si poteva cuocere altrimenti).
Dimensione popolare, insomma e non certo gourmadise di moda come lo street food odierno.
Chiamarlo cibo di strada non è sbagliato, ma la storia sarebbe da approfondire. Visto che non abbiamo tempo perché l’olio nella pentola rischia di bruciare, direi di passare oltre.
Segreto della frittura veneziana è la panatura. Se avete voglia, leggete uno dei più bei libri sulla gastronomia lagunare, Osterie Veneziane di Elio Zorzi, una combinazione tra una bibbia culinaria e la Michelin.
Nel 1928, questo valoroso assaggiatore diceva quanto segue:
“Naturalmente, in fatto di frittura, la specialità veneziana consiste nell’arte di friggere: ed in quest’arte non v’ha al mondo chi superi i frittolini, o friggipesce. Essi usano friggere il pesce in abbondantissimo olio dopo averlo molto parcamente infarinato; ma quel che più conta per il successo delle fritture è l’occhio dell’artista”.
Ora, posto che l’occhio dell’artista in cucina è una componente inafferrabile almeno quanto gli ingredienti sferificati raccolti con le mani insaponate e stando in equilibrio su una gamba sola, passiamo alla panatura.
A Venezia si usa pochissima farina (alcuni non la mettono neanche). Sono tuttavia ammesse eccezioni: ci sono un paio di ingredienti per i quali è possibile un passaggio in una pastella fatta di farina e uova.
Partiamo dal pesce: calamari, seppie, gamberi, sarde come s’è detto.
E granchi: e qui ecco che si apre una storia nella storia: in primavera, così come in autunno, i granchi lagunari si trovano nel periodo della muta. Perdono il vecchio carapace per formare quello nuovo: in questo breve lasso di tempo, senza corazza, disarmati, teneri e quasi molli, diventano moeche e sono oggetto di raccolta da parte di pescatori esperti (Chioggia e Burano).
Per pescarle, i moecanti usano le trezze, reti collocate nei fondali bassi della laguna. Si aiutano con le serraglie, lunghi sbarramenti di pali e reti (piantati a ogni inizio di stagione), a cui sono collegate le trappole a imbuto (i cogòlli), dove si intrappolano pesci e appunto granchi.
Una volta catturati, si trasferiscono in sacchi di juta per mantenerne l’umidità fino ai casòni dove si selezionano i granchi separando quelli maturi da quelli prossimi alla muta. Solo questi infatti, sistemati in casse di legno e semisommersi in acqua marina, diventeranno moeche.
A chi ama la precisione diamo un dettaglio in più: moeca è solo il maschio del granchio: le femmine (masanete) infatti seguono un ciclo di muta diverso (tra maggio e luglio): in autunno, quando sono piene di uova, non mutano più e, una volta catturate, sono mangiate con il coràl (le uova).
Se l’idea di mangiare piccoli crostacei disarmati e indifesi vi fa venire dei rimorsi, avete una sola alternativa: cedere il tesoro a un vostro compagno di tavolo e affrontare in uno scontro fisico il pescatore che li ha catturati, notevolmente arrabbiato perché dopo tutta la fatica fatta si ritrova di fronte un commensale sensibile e lamentoso.
Se invece appartenete alla schiera dei golosi senza pentimento sappiate che se la ricetta tradizionale vuole che le moeche siano solo infarinate e poi fritte (devo dirvi però che vengono bucate con uno spillo per far fuoriuscire l’acqua interna), esiste anche una versione più lussuriosa della frittura: un’immersione dei granchi ancora vivi nell’uovo per un paio d’ore.
Soffocate dall’uovo, le moeche possono finalmente trovare pace nell’olio bollente assumendo (come dice sempre il nostro faro Elio Zorzi) “un color rosso dorato ch’è una bellezza, e un sapore dolcigno, che s’associa squisitamente ad un gusto piccante d’aliga e di mare”.
Superato lo scoglio più drammatico e cruento, passiamo alle verdure.
Qui avete l’imbarazzo della scelta: a seconda della stagione rivolgete lo sguardo agli orti di Venezia (un gruppetto di isole che comprendono Sant’Erasmo, le Vignole, Lio Piccolo, Malamocco e Mazzorbo) o alla Giudecca, e avrete zucche, broccoli, zucchine, carciofi, asparagi.
Ed eccoci al punto: in Laguna la somma di primavera + carciofi porta a un unico risultato e cioè le castraure di Sant’Erasmo. Le castraure sono i primi germogli (apicali) della pianta di carciofo.
Vengono raccolti per primi – verso metà aprile – permettendo così lo sviluppo di altri 18-20 carciofi laterali (i bòtoli).
La varietà coltivata in Laguna è il carciofo violetto: tenero, carnoso, poco spinoso, ha forma allungata e le brattee di color violetto cupo. Il sapore è inconfondibile ed è dato dal tipo di terreno: argilloso, ben drenato e con una salinità molto alta. Lo si trova sul mercato solo per pochi giorni, 10 o 15 al massimo.
Il consiglio quindi è di farne indigestione: nello scartosso, le castraure leggermente infarinate o se volete esagerare immerse prima in pastella (farina, uova e acqua minerale), vanno a braccetto con le moeche e gli altri pesci.
Potete anche assaggiarle crude e condite con un filo di olio, oppure con il garbo, cioè cotte con soffritto di aglio o cipolla a fuoco molto lento e a tegame coperto, con l’aggiunta finale di aceto o limone.
Ultimo consiglio: se avete tempo, non accontentatevi solo di mangiare il vostro scartosso seduti a tavola, ma andate a cercare le verdure negli orti.
Dalle Fondamente Nove prendete il vaporetto n. 13 direzione Sant’Erasmo: una volta arrivati, chiedete degli orti. Se non siete troppo stanchi, raggiungete la Torre Massimiliana, una massiccia fortificazione militare asburgica che si affaccia sulla bocca di porto del Lido.
Trovate un spiazzo dove distendervi, allungate le gambe e piegate le braccia dietro la testa: scommetto che una frittura che vi fa fare un viaggio del genere non l’avete mai mangiata.
[Crediti | Immagini: Scatti di gusto, Caterina Vianello]