Lieta notizia di fine anno: a Pompei hanno scoperto un nuovo termopolio, una bottega dedita al consumo di street food. La notizia, che è una signora notizia, l’abbiamo riportata anche noi e non abbiamo potuto fare a meno di notare che in molti sui social network (sul nostro e su quelli di altre testate) si sono scagliati contro l’utilizzo dell’espressione “street food“. Perché non chiamarlo “cibo da strada“, dicono loro, talvolta in un impeto di nazionalismo, in altri casi mossi dall’ormai diffusa insofferenza verso la lingua anglofona, quando ritenuta ingiustificata.
La polemica è sterile, ma ci dà modo di riflettere sullo “street food” e sul perché abbia senso chiamarlo così, anche se stiamo parlando di un thermopolium della Roma che fu quando la Britannia era una colonia romana (i fascisti da tastiera trarranno un sospiro di sollievo prima di leggere il resto).
Sia chiaro, anche il direttore del sito archeologico di Pompei, Massimo Osanna, non ha avuto molte remore nel definire il termopolio ritrovato un “ristorante da street food” prima e poi, ancora dopo, “un fast food dell’epoca”, nell’eccellente documentario mandato in onda sulla Radiotelevisione Italiana qualche giorno fa.
Ma si ha da ridire sulla scelta linguistica anche di uno dei più grandi esperti viventi in materia archeologica, direttore di quello che è il museo a cielo aperto più importante del mondo. E non lo dico solo io: a parlare è lo straordinario lavoro portato avanti in un quinquennio di gestione eccellente del sito archeologico e della sua comunicazione. Fino a prima della pandemia, Pompei contava su 4 milioni di visitatori all’anno: un dato incredibile per una cittadina di 25mila abitanti.
Street Food: come nasce questa definizione?
Una definizione più netta di cosa sia lo street food l’abbiamo in epoca contemporanea, ma i cibi consumati per strada hanno una vita che definire lunghissima è dir poco. Essenzialmente, mangiavano per strada gli appartenenti ai ceti sociali più poveri, o ancora quelli che lavoravano per l’intera giornata tra le vie della città. I più ricchi possedevano cucine e servitù per prepararsi il cibo da sé, ma mangiare per strada era un modo per socializzare, farsi pubblicità in caso di elezione e molto altro… niente di dissimile da ora, insomma.
Sicuramente, l’evoluzione dello street food è legato all’evoluzione urbana: nascono, crescono, cambiano le città e cambia il modo di alimentarsi. Un fenomeno particolarmente legato alle civiltà del bacino Mediterraneo: abbiamo tipi di alimentazione simili nell’antica Grecia, in Asia Minore, in Africa ed, ovviamente, a Roma e successive province.
Il termopolio ritrovato a Pompei si innesta appunto in questa tradizione: era potenzialmente anche una taverna, 20 metri quadri scarsi, dove ci si appoggiava a tavoli di fortuna oppure si consumava in piedi le pietanze selezionate. Non so voi, ma io la pizza fritta la mangio ancora così, poco distante dalla pizzeria che me la serve bollente nella carta o appoggiata al tavolino Coca Cola di fortuna.
Ma quando lo “street food” inizia a chiamarsi così?
La definizione di “street food” viene data nel 1986 da un organismo decisamente autorevole: la FAO, Food and Agriculture Organization, stila un documento dove vengono analizzati diversi tipi di alimentazione di strada in diversi continenti: Subcontinente indiano, Africa, America Latina.
The term “street foods” describes a wide range of ready-to-eat foods and beverages sold and sometimes prepared in public places, notably streets.2 Like fast foods, the final preparation of street foods occurs when the customer orders the meal which can be consumed where it is purchased or taken away. Street foods and fast foods are low in cost compared with restaurant meals and offer an attractive alternative to home-cooked food. In spite of these similarities, street food and fast food enterprises differ in variety, environment, marketing techniques and ownership.
Insomma: un termopolio, per come lo descrivono i libri e gli addetti al settore. Con buona pace di chi dice che ci sono troppe semplificazioni giornalistiche.
Perché Street Food e non “cibo da strada”?
Un primo motivo lo ritroviamo nella più pura analisi linguistica. Treccani data l’introduzione di “cibo di strada” tra le sue pagine soltanto nel 2008, come neologismo: ben ventidue anni dopo la registrazione della FAO di “street food”. Va da sé, quindi, che ci troviamo di fronte ad un fenomeno linguistico chiamato calco linguistico: una parola viene “presa in prestito” da un’altra lingua e trasportata (mantenendo il suo originario significato oppure ancora “ri-semantizzandosi”, cioè acquisendo un altro significato) nella nostra. Possiamo quindi tranquillamente affermare che “street food” è la parola originaria, ormai entrata a far parte del nostro lessico quotidiano e che “cibo di strada” sia un calco linguistico, altrettanto ammesso nella nostra lingua. Possono essere utilizzati entrambi senza incorrere in errore? Sì, ma noi preferiremo comunque chiamarlo street food, per il motivo che segue.
Il concetto di glocalizzazione. Adoperare “street food” come terminolgoia ci aiuta ad inserire le nostre peculiarità, la nostra identità in un contesto globale senza auto-metterci in un recinto identitario inutile, sterile e senza confronto. Ciò non significa dover rinunciare alla propria identità: più che altro, presentarla in un contesto globale, entrando a far parte del cosiddetto processo di glocalizzazione.
La lingua viene fatta dai parlanti
Quello che spesso i puristi della lingua non riescono a comprendere è che una lingua è fatta dai suoi parlanti: le Accademie possono dare indicazioni sul corretto utilizzo di questo o quel termine ma ad una certo punto le Accademie stesse si ritrovano a registrare cambiamenti, terminologie desuete (per chi è pratico di dizionari, un sacco di volte si ritrova una bella croce prima della definizione di alcuni termini che non vengono più utilizzati). Ma attenzione: soltanto i meno accorti potranno vedere in ciò un “attacco all’identità”: meno male viene da dire che la lingua cambia, si evolve, si accresce; meno male che c’è la contaminazione – a volte accorta, altre meno, come tutto del resto – tra i parlanti della lingua Y e quelli della lingua X. Per ogni termine “perduto” ce ne sono altri acquisiti, in potenza o passivamente; tantissimi altri “prestati” ad altre lingue. Le lingue che non si prestano a questo “gioco” (lo chiamo gioco, ma in realtà sono fenomeni complessi ed interessanti) sono destinate ad essere parlate da pochi gruppi linguistici. La gastronomia dovrebbe prestarsi come trait d’union tra queste lingue e culture: lo street food può benissimo farlo.