Non è tanto il tempo di premiare gli chef per la loro cucina, visto che da oltre un anno – ahinoi – è diventata un’impresa andare a mangiare nei ristoranti. Ma guide et similia devono pur andare avanti, e allora ecco che dal cappello escono riconoscimenti e iniziative nuove, ché star troppo fermi non fa bene a nessuno. Come il “Champions of change” della The World’s 50 Best Restaurants, che ha appena premiato tre chef per il loro contributo a cambiare in meglio il mondo. Una cosa che suona tanto come il tassello finale nel percorso che sancisce la trasformazione della figura del cuoco in quella del guru dispensatore di perle di filosofia.
Ironia a parte, se viviamo nell’epoca degli chef superstar, allora a questo punto vale la pena di chiedergli di prendere posizione su temi importanti. Come ha fatto Viviana Varese, chef del ristorante una stella Michelin Viva di Milano, uno dei tre Champions of Change premiati dalla 50 Best: gli altri sono Kurt Evans, chef e attivista di Philadelphia che frutta il proprio talento per sensibilizzare l’opinione pubblica sulla necessità di porre fine all’incarcerazione di massa e Deepanker Khosla, chef e proprietario del ristorante Haoma a Bangkok, che durante la pandemia ha trasformato il suo locale in mensa per le persone in difficoltà.
Unica italiana premiata, dunque, a chef Varese è stato riconosciuto il suo impegno ad abbattere le barriere nei confronti della comunità LGBTQ+ e, allo stesso tempo, a favorire l’inclusione sociale. Un impegno che parte dalla sua storia personale di omosessualità e che arriva a bellissimi progetti, come la gelateria “Viva il gelato”, che la chef aprirà in autunno a Milano, dando lavoro a donne vittime di violenza domestica.
Secondo lei perché è stata scelta per questo premio?
“Sono temi su cui lavoro da sempre: io sono omosessuale è per me è naturale fare scelte di inclusione. Ho fatto parte per anni del Parabere forum, per promuovere l’inclusione femminile nel mondo della gastronomia. La mia cucina è sempre stato un luogo ricco di diversità, e dopo anni che avveniva in modo silente, quando ho riaperto Viva ho creato un mio manifesto, che include temi come la sostenibilità ambientale e il gender balance: tutti temi che sono stati trasformati in un’opera dall’artista Marco Nereo Rotelli, che mi ha chiesto di scrivere 90 parole per il mio manifesto”.
A suo parere c’era bisogno di un premio che celebrasse la causa GLBTQ in cucina?
“Sì, anzi, mi fa strano nessuno ci abbia pensato prima. C’è bisogno di aprire le coscienze di tutti: è una questione di giustizia e di accettazione sociale, e che una realtà così prestigiosa dia questo segno per me è molto importante. Alla fine, è un tema che corre di pari passo con quello femminile: sono due ambiti su cui il mondo del lavoro ha ancora tanta strada da fare per arrivare all’inclusione”.
A proposito di questo: cosa pensa lei dei premi di genere, quelli dati al “miglior chef donna dell’anno”?
“Nel 2021 probabilmente non dovrebbero esistere più, a mio parere. Una donna dovrebbe essere premiata a prescindere dal sesso, altrimenti è come stare chiuse in un recinto”.
Dal suo punto di vista, qual è il rapporto del mondo dell’alta gastronomia con la causa LGBTQ? Chef celebri dichiaratamente gay ce ne sono pochi, così come i calciatori: tutti etero o tanti si nascondono?
“Eh, ditemelo voi. Anche facendo una statistica grossolana, se in Italia ci sono 371 stellati e circa il 10% della popolazione è omosessuale, dovremmo avere almeno una trentina di chef gay. Dove sono? Io non li conosco. È chiaro che si nascondono: purtroppo quello dell’alta cucina è un mondo molto maschile, in cui bisogna seguire un modello aggressivo e autorevole, per cui uno chef omosessuale avrebbe certamente un problema di ruolo. È come un comandante di battaglione che si dichiara gay: impossibile, praticamente”.
Parliamo della sua esperienza: è stato difficile per lei dichiararsi gay?
“Io ho dichiarato di essere omosessuale a 21 anni, al funerale di mio padre, ma solo dopo che è morto ho scoperto che lui, in realtà, l’aveva sempre saputo senza che glielo dicessi, e anzi mi difendeva. Personalmente, da allora, non ho mai avuto paura di dirlo, io mi sento normale. Certo, il percorso di accettazione all’inizio è stato difficile, anche perché quando l’ho dichiarato non c’era internet, non c’era nessuno che potesse supportarmi aiutandomi a capire: pensavo di essere l’unica lesbica della provincia di Lodi, sono andata in grande crisi, ma perché non conoscevo il mondo lì fuori”.
Ma davvero la cucina si deve occupare di temi sociali? In fondo siete cuochi…
“Sono d’accordissimo, siamo cuochi. Quando ho iniziato avevo 13 anni e questo era il lavoro più umile di questo mondo, un mestiere che nessuno voleva fare. Oggi si è creato un mondo intorno a questo mestiere, e tante volte ci dimentichiamo qual è il nostro scopo primario, quello di metterci a servizio e nutrire il cliente. Ma è una cosa che abbiamo creato tutti insieme, mica solo noi cuochi: giornalisti, aziende, la televisione ci hanno dato una mano. Anzi, ora con la pandemia tutto questo si sta un po’ attenuando: ho visto tanti ego sfracellarsi con il sedere per terra. Ma la verità è che ormai siamo in questo sistema, e se qualcuno mi chiede cosa penso di un argomento io gli rispondo con la mia verità, senza fare politica o pretendendo di avere ragione, ma dando il mio sincero punto di vista”.
A proposito di politica, cosa pensa del DDL Zan?
“Non capisco tutto questo dibattito su una legge che deve passare. In Italia siamo così indietro rispetto al resto dell’Europa, è ora di fare dei passi avanti. Dobbiamo tutelare chi viene pestato perché omosessuale, dobbiamo abbattere gli stereotipi, cercare di essere più amorevoli nei confronti degli altri. Se questa legge non passerà o verrà cambiata sarà certamente un male per il nostro Paese: quello che c’è di buono è che almeno oggi, grazie alle discussioni sul DDL Zan, si sta facendo tanto baccano intorno alla questione dei diritti della comunità GLBTQ”.