Falso. Il balcone di Giulietta è falso. Lo sanno tutti, no?
Eppure il Comune di Verona capitanato dal sindaco Flavio Tosi, non si fa troppi scrupoli a chiedere 6 euro a testa per visitare un balcone che con le faccende narrate da Shakespeare ha poco a che fare.
Forse perché tutti gli scrupoli comunali sono stati riservati alle kebabberie del centro storico, colpevoli a parere del Comune di insudiciare, rovinare e omologare il centro storico della bella città veneta, ammorbando l’aria fieramente italica con il loro aroma di spezie esotiche.
Tanto che è stato appena varato un provvedimento che vieta l’apertura di nuovi negozi di kebab nel centro storico di Verona, oltretutto patrimonio Unesco.
Inutile dire che su Tosi si è abbattuta l’accusa di bieco razzismo che a nessun politico (ex) leghista viene mai negata, qualunque azione intraprenda, sia lodevole che sordida o campata per aria. E che tutti i lettori di Dissapore abbiamo pensato a quanto da poco successo tra il sindaco di Firenze Dario Nardella e McDonald’s.
Ma volendo andare a fondo alla questione, davvero kebabberie e take away di cibi etnici deturpano in tal modo il bel centro di Verona?
Lo ha chiesto a Marco Ambrosini la bellissima rivista digitale di New York Roads & Kingdoms.
L’assessore nella giunta Tosi per il commercio e il turismo ha giustificato le decisioni del primo cittadino richiamandosi alla sporcizia e al sudiciume causati dagli involti dei kebab, così come dai contenitori di pizze, hamburger o patate fritte, che puntualmente imbrattano le strade comunali invece di essere gettati negli appositi cassonetti della spazzatura, atteggiamento condiviso allegramente da frotte di turisti italiani e stranieri.
Insomma, il centro storico verrebbe insudiciato da contenitori di cibo vuoti, ma –e ciò che pare più grave agli occhi del Comune– soprattutto da contenitori di cibo non ruspante, cibo straniero, lontano, falso come il balcone di Giulietta!
Se non possiamo che essere d’accordo con il primo cittadino riguardo al sudiciume e alla nostra cattiva educazione, possiamo dire lo stesso riguardo alla sua chiusura verso il cibo “straniero”, sulla difesa a oltranza del cibo italico che solo avrebbe il diritto di figurare nei centri storici delle nostre belle città?
Ha senso un atteggiamento del genere in Italia dove, come nel resto del mondo, sempre più cuochi provengono da altre culture e altre nazionalità?
E non stiamo parlando degli ultimi arrivati o di trattorie gestite dall’improvvisato di turno: parliamo di professionisti e chef del calibro di Annie Féolde della rinomatissima Enoteca Pinchiorri, di Heinz Beck, che da vent’anni delizia i palati romani dall’alto della sua La Pergola, del suo connazionale Christoph Bob del Monastero Santa Rosa in costiera amalfitana.
Del ticinese Pietro Leemann di Joia, pioniere del vegetarianismo, della francoamericana Alice Decourt, dell’Erba Brusca, dell’uruguaiano Matias Perdomo oggi al Contraste, tutti di stanza a Milano.
Di Roy Caceres, chef colombiano del pariolino Metamorfosi, della spagnola Alba Esteva Ruiz di Marzapane, entrambi a Roma.
O ancora del bretone Philippe Léveillé del Miramonti l’Altro e del’albanese Entiana Osmenzeza del Gurdulù di Firenze.
Tutti professionisti che con la loro preparazione e la loro inventiva, entrambe straniere, interpretano in maniera eccellente e personale la cucina italiana.
E parliamo anche di personaggi dalla storia particolare, come Nabl Hadj Hassen, che avendo iniziato come semplice lavapiatti da Roscioli a Roma, la nota salumeria con cucina, è approdato a un livello tale di perfezione da servire una tra le migliori carbonare del globo e meritare la menzione nientemeno che del New York Times.
Di questo stiamo parlando.
Perché la cucina, le ricette, le preparazioni culinarie, non dipendono certo dalla nazionalità del cuoco, ma dalla sua competenza, dalla sua tecnica e dal suo amore verso il mestiere e le tradizioni della terra che lo ospita.
Per questo, alla domanda del New York Time che tempo fa si chiedeva “può una cucina chiamarsi ancora italiana se lo chef non lo è?” la risposta non può essere che sì, inconfutabilmente sì: la cucina italiana è quella che, da chiunque eseguita, riflette l’amore e la gratitudine per il nostro Paese e li trasmette nel cibo preparato.
Anche se l’oste è iraniano (e magari vende kebab).
[Crediti | Link: Roads & Kingdom, New York Times, Dissapore]