Nelle ultime settimane mi è capitato di incontrare più volte Niko Romito, uno dei più grandi cuochi-imprenditori del nostro paese, del mondo. Abbiamo parlato di tante cose –dal suo lavoro sul pane a di quello sulla cucina italiana– ma la frase che più mi ha colpito è questa:
“Se mi arrivasse il curriculum di uno che ha lavorato sette anni in una rosticceria lo prenderei subito. La qualità che più conta in questo mestiere è la tenacia.”
[ALT: pit stop con Niko Romito alla stazione del gusto]
[Spazio di Niko romito a Roma: cosa funziona e cosa meno]
[Com’è Bomba: il take away stellato di Niko Romito a Milano]
A ben pensarci la cosa è piuttosto intuitiva: fare il cuoco è un lavoro ripetitivo, faticoso, per cui ci vogliono volontà e costanza; se uno si è fermato a lungo in un posto significa che plausibilmente ha queste virtù, anche se magari occupato in un ruolo semplice o umile.
La cosa è intuitiva eppure sono pochissimi i giovani professionisti che hanno la pazienza di metterla in pratica. Di solito i ragazzi anche in gamba preferiscono inanellare una serie di stage brevissimi da nomi roboanti, in modo da poter spendere in curriculum residenze al Noma, da un Ramsay, da un Robuchon.
In realtà gli imprenditori che cercano personale si fanno poco impressionare da quelle che spesso sembrano più etichette che reali occasioni formative: se stai due mesi in un posto poco imparerai.
Sette anni sono tanti, per carità: Daniel Humm, chef dell’amato ristorante Eleven Madison Park di New York mi disse –lo scrissi qui– che per formarsi è necessario fermarsi un posto almeno per tre. Tre anni anche sono un periodo lungo, ma è quello che serve per imparare qualcosa.
[Com’è Eleven Madison Park, il ristorante che ha vinto la 50 Best Restaurant 2017]
Se no si fa la figura del premier, che tutte le volte che passa davanti a un ateneo aggiunge al curriculum “visiting professor.”