Lo chef è uno dei dieci mestieri più stressanti al mondo.
Anzi, no, tutte balle: parola di Gianfranco Vissani.
Il cuoco più sanguigno d’Italia esprime il suo punto di vista sull’imperante retorica dei cuochi vessati, oberati di lavoro, sottopagati, presi a calci negli stinchi da chef sull’orlo di una crisi di nervi e sempre sul baratro della depressione che, in alcuni casi estremi, avrebbe addirittura portato al suicidio.
L’intervento di Vissani sul Fatto Quotidiano (solo per abbonati) muove da una recente ricerca dell’Università di Harvard, che ha classificato il mestiere di chef tra i dieci più stressanti al mondo, ripresa ovunque da “giornalisti disinvolti” che, per far guadagnare qualche clic in più alla loro testata, hanno fatto da cassa di risonanza a un fenomeno che in realtà, secondo Vissani, non ha quelle dimensioni e quell’aura di dannazione che manco un Keith Richards dei tempi d’oro poteva vantare.
E tutto per una manciata di like o di visibilità in più:
“E’ stato gettato un sasso nello stagno tanto per agitare le acque –afferma Vissani–, con la certezza che qualche pesce in vena di protagonismo avrebbe abboccato fornendo pareri a aneddoti più o meno qualunquisti e improvvisati. E chi ci rimette è il lettore, frustrato da una serie di banalità”.
Oh, là! Con due parole Vissani ha messo a posto stuoli di giornalisti e commentatori a vario titolo, di cui ci pregiamo di far parte, che negli ultimi tempi hanno dedicato spazio al duro mestiere di chef.
Ma giornalisti a parte, Vissani si dedica alla pretesa durezza del mestiere di chef: “E’ un lavoro totalizzante che si svolge quando gli altri si divertono o festeggiano: il pranzo di Natale, il cenone di San Silvestro, ogni pasto che riunisca la famiglia in un momento di gioia e di relax vede la brigata di cucina in piedi ai fornelli, tesa perché i piatti escano in tempo e a regola d’arte. E’ così a pranzo, a cena, il sabato, la domenica e negli altri giorni di festa”.
Certo, non una passeggiata, ma nemmeno quel lager che sembra diventata la cucina nei racconti romanzati dei media: “E’ un lavoro duro –continua Vissani– , ma sa darti impagabili soddisfazioni quando i clienti vengono a farti i complimenti e ti dicono di aver vissuto un momento di magia, o quando senti il brivido della creazione ogni volta che inventi un nuovo piatto, che scopri un nuovo ingrediente, che riesci a individuare quella combinazione di una squisitezza mai provata”.
Nessuno contesta il fatto che il mestiere di cuoco, con le ore in piedi nel caldo di una cucina, a contatto con persone unite dall’affanno di far uscire i piatti in tempo, “molte delle quali con un coltello in mano”, possa portare notevoli livelli di stress, ma da qui a costruire la narrazione dello chef “bello e dannato” alla Marco Pierre White ce ne passa.
Che dire allora di altri mestieri magari meno mediatici e sulla cresta dell’onda ma che in quanto a fatica, ritmi e condizioni lavorative non hanno nulla da invidiare a quello del cuoco?
Non sarà che ormai questo mestiere risente di uno “storytelling” infarcito di retorica progettato per occupare le pagine dei giornali e dei social?
“La depressione, il male di vivere, hanno radici molto più profonde nella storia delle persone, storie e persone che meritano rispetto e non devono diventare un’improvvisata casistica per suffragare qualche sgangherata classifica di un’informazione vacua e superficiale”, conclude Vissani.
E come dargli torto?
[Crediti | Link: Il Fatto, Corriere]