Mauro Colagreco è, con ogni probabilità, lo chef più gentile del pianeta. Disponibile, sorridente, calmo, trova il tempo per ogni cliente, per ognuna delle sue molte incombenze. Ma il garbo non l’avrebbe reso celebre. Ciò che l’ha reso noto in tutto il mondo è una cucina fortemente vegetale, di grande nitore ed eleganza che ha fatto guadagnare al suo ristorante Mirazur di Mentone la terza stella Michelin a gennaio 2019 – primo argentino della storia, primo cuoco tristellato non francese in Francia da 110 anni – e a giugno il titolo di “miglior ristorante del mondo” secondo la classifica 50 Best Restaurants 2019 (che l’anno scorso spettò a Massimo Bottura).
Nato a La Plata nel 1976 – nonni da Abruzzo, Campania e Calabria –, emigrato in Francia e cresciuto con i maestri Bernard Loiseau e Alain Passard, mantiene con l’Italia un rapporto più che speciale: al di là della partecipazione come giudice al programma “Top Chef Italia”, quotidianamente varca il confine francese per fare la spesa a Ventimiglia, un quarto d’ora d’auto dal locale. Ed è dunque proprio parlando di confini – in questa era di muri – che iniziamo la conversazione.
Un cuoco argentino, nipote di italiani, che ha fatto fortuna in Francia: la sua è una storia di migrazioni…
“La mia famiglia ha sempre traversato confini: i miei nonni – i paterni Colagreco dall’Abruzzo, da parte di madre i Longo campani e i Ciancio calabresi – sono partiti all’avventura e sono finiti in Sudamerica; io ho fatto il cammino inverso. Sono nato nel 1976, proprio l’anno del colpo di Stato in Argentina, e quando sono arrivato in Costa Azzurra con me non avevo niente, se non un numero di telefono per cercare lavoro. Le frontiere non devono essere punti di divisione, ma di confronto. Ho un’idea dell’appartenenza molto libera, filosoficamente penso che il mondo sia per tutti”.
Lei sulla frontiera ci lavora: il Mirazur è a cinquanta metri, due minuti a piedi dal confine italiano. Cosa vuol dire essere “frontaliero” per un cuoco?
“Significa un’enorme ricchezza: ho a disposizione non una, ma due culture gastronomiche, dai due lati ci sono prodotti e tradizioni diverse. Di qua ho il mio orto, ma al mercato vado tanto a Mentone quanto a Ventimiglia. Un tempo era tutta Savoia, c’è una cultura comune di fondo; Mentone è stata italiana tante di quelle volte… (ride) E anche più di un terzo dei cuochi nella mia cucina è italiano, a partire dal napoletano Antonio Buono, co-chef del ristorante (poi ci sono il saucier Davide Garavaglia, la pasticcera Annalisa Borella…)”
Ha citato il suo orto e la sua cucina è celebre per l’uso delle verdure. Crede che dovremmo smettere di mangiare carne?
“Stare nell’orto è ciò che mi dà pace, mi fa riconnettere con la terra. E credo che sia giusto ridurre il consumo di carne: io vengo dall’Argentina, tradizionalmente il paese della carne, ma ora il mondo è cambiato, ci sono paesi come la Cina che stanno diventando grandi consumatori, richiedendo produzioni enormi. Noi cuochi dobbiamo dare l’esempio, riducendo il consumo di carne e di pesce. Il pianeta non sta bene, ma io non ho perso la speranza. E se non ci pensano i governi – che non fanno abbastanza – dobbiamo farlo noi”.
Lei parla di “esempi” e di certo lei lo sarà per tanti giovani aspiranti cuochi. Cosa consiglia loro?
“È un mestiere duro, si sacrificano molte cose. Ma, d’altro canto, è il lavoro più bello del mondo. E apre molte porte. Vorrei che la mia storia raccontasse questo: che se si vuole si può arrivare in alto, anche partendo da niente”.
È stato incoronato miglior cuoco del mondo. Cosa significa essere il numero uno?
“È una grande felicità anche se non mi considero il più forte: siamo tutti diversi, difficile confrontarci. Poi ho capito che la brama di successo può essere molto pericolosa. Io devo tutto a Bernard Loiseau, che mi prese a lavorare con lui e mi aprì le porte della Francia. Quando nel 2003 si suicidò (tra le cause, il declassamento da parte delle guide gastronomiche ndr) fu un grande choc, ma anche una lezione: allora capii che nella vita ci vogliono basi solide, famiglia, amici, equilibrio… Se hai solo il lavoro sei troppo fragile”.
Come gestisce lo stress?
“Da tre anni ho ripreso a fare sport e ho un trainer che periodicamente mi aiuta a praticare yoga e meditazione. E poi vado a curare le piante”.
La cucina ha a che fare con la felicità?
“Certo, la felicità è l’obiettivo della cucina e anche il suo strumento. In ogni piatto che faccio cerco di trasmettere amore, speranza, fiducia e rispetto. L’onestà è il fondamento di tutto: i cuochi non devono cucinare per soddisfare il proprio ego ma per dare emozioni. Poi, certo, in cucina come altrove la ricerca della felicità non è una cosa semplice: io ci lavoro tutti i giorni, non sempre ci riesco”.
Oltre al Mirazur, lei ha ristoranti in tutto il mondo – in Cina, in Francia, in Argentina –, ha mai pensato di aprire in Italia?
“Ma già ci sono! (ride). Certo, mi piacerebbe, ho anche avuto in passato diverse occasioni ma nessuna finora è andata a buon fine. L’Italia è la mia terra e ancora oggi ha i migliori prodotti del mondo. Chissà, magari, un giorno…”