Se la cucina avesse un Fabio Volo, quello sarebbe Matteo Baronetto, chef del Ristorante Del Cambio di Torino. Due libri all’attivo nell’arco di qualche mese e altri progetti letterari in cantiere: roba da fare invidia a più di qualcuno di noi scribacchini di mestiere.
“Più che un Fabio Volo, un Bruno Vespa”, dice scherzando Baronetto, e francamente non siamo sicuri di quale dei due paragoni sia più utile a darsi un tono. Volo o Vespa che sia, quel che è certo è che l’ex allievo di Carlo Cracco è cresciuto, e oltre a essere ormai stabilmente alla guida dello spazio gastronomico più solido della città (il Del Cambio, oltre al ristorante, ha anche l’ottima farmacia e il super cool American Bar) si sta anche ponendo come volto di riferimento di una certa generazione di cuochi, quantomeno di quelli piemontesi. Perché è evidente che Baronetto ha savoir faire, capacità di parlare in pubblico e chiaramente anche ambizione, in cucina e anche fuori. Uno chef intellettuale, insomma, di quelli che forse servono alla categoria per scollarsi una certa immagine di dosso. “Intellettuale, ma non esageriamo”, minimizza lui, ma intanto sforna libri come neanche Fabio Volo, appunto.
Quanti libri ha all’attivo?
“In effetti sono due in tre mesi, però sono due cose molto diverse. Uno (“Cucina piemontese contemporanea”, ndr) è un testo sulla cucina piemontese, con un tocco grafico più leggero e con ricette che riprendono in modo coerente la tradizione, andando ad aggiungere riferimenti al territorio. È un libro che ho pensato l’altr’anno a novembre, ed è quello che rappresenta meglio il momento che sto vivendo e il luogo dove opero. Era nato per la voglia di fissare e indagare il momento in cui siamo nella relazione con la cucina tradizionale”.
E l’altro, “Iconiche Similiturdini”?
“Questo è qualcosa di più mio, qualcosa che mi rappresenta molto. È una cosa piccola, per pochi, dedicata indirettamente ai cuochi di pensiero, ai cuochi di identità, ovvero coloro che cercano di fare cose in modo sensibile lasciandosi guidare da un’emozione più che dal business”.
A proposito di business, i libri si fanno anche per vendere, no?
“Nel caso di Cucina piemontese contemporanea, mi sono sì reso conto che non c’era nessun testo di cucina tradizionale della nostra regione aggiornato, quindi mi sono collocato in uno spazio vuoto del mercato. “Iconiche similitudini” ha una genesi diversa, c’è un ritorno romantico al concepire un libro di cucina come oggetto quasi da collezione, con una carta preziosa, una dimensione quasi tascabile e la sostituzione delle foto con illustrazioni stilizzate a cui ho lavorato personalmente, insieme al grafico”.
Quanti libri ha ancora nel cassetto?
“Be’, Iconiche Similitudini è un “volume 1”, quindi sicuramente ci sarà più avanti un volume successivo. E poi non nascondo che mi piacerebbe scrivere un romanzo, forse anche una biografia, che possa essere una mezza verità mescolata a qualcosa di inventato sulla storia di un cuoco. Per questo progetto, certamente, dovrei farmi aiutare, perché so di non essere uno scrittore”.
Eppure “Iconiche Similiturdini” lo ha scritto lei di suo pugno, no?
“Sì, i testi di questo libro sono miei, ma la complessità del linguaggio non è alta: fare un romanzo è un’altra cosa. Implica un’esercizio di mestiere che non è il mio”.
Ma la vita di un cuoco è così interessante da meritare un romanzo?
”Se si raccontano le cose vere magari sì, non serve neanche romanzarla troppo. Quello che vorrei non è la ricerca della spettacolarizzazione ma il racconto di come in questo mestiere ce la si possa fare, nonostante si vivano grandi momenti di stress. Immagino un libro che possa servire a chi lo legge per capire che certe situazioni capitano, sono comuni, e non bisogna sentirsi uno sfigato o un debole quando le si vive. Finché non sento che sarà utile in questo senso non lo farò: viviamo un momento in cui la cucina si è raccontata molto, in diversi modi, ma manca una parte di verità”.
Ma uno chef può essere un intellettuale?
“Uno chef può essere sensibile, e la sensibilità ti aiuta ad approcciarti all’intellettualità, intesa come capacità di conoscere persone e discipline interessanti diverse dalle tue. Discipline che però per tanti motivi ci possono aiutare. In questi ultimi anni la cucina lo ha fatto spesso, di approcciare discipline diverse, e per rendersene conto bisogna essere sensibili, altrimenti è come andare a fare la spesa e non riconoscere un grande prodotto”.
Quindi essere sensibili fa la differenza?
“Secondo me sì, anche se poi la sensibilità è talvolta vista come una debolezza. Viviamo in un mondo dove sovente si è più considerati se si è rudi, se si è personaggi, ma poi alla fine ognuno di noi ha i suoi problemi e le sue debolezze, nella vita personale come in quella professionale. Non c’è nulla di sbagliato o di strano a smasherare una sensibilità, e forse dovremmo arrivare a premiarla davvero”.
Tornando ai libri, dove trova il tempo per scriverli?
“Nei giorni di riposo, la domenica sera, il pomeriggio quando stacco, nelle ferie e nelle vacanze. Sicuramente non sono cose che per me sono un peso, quindi le faccio con facilità, trovo volentieri il tempo”.
Ed è anche un lettore, oltre che uno scrittore?
“Devo ammettere che sono uno scarsissimo lettore, o meglio sono un lettore di ciò che mi affascina e mi coinvolge. Mi piacciono per esempio le biografie degli artisti e i libri di arte contemporanea, ma se incontro testi che non mi piacciono per me è molto complicato riuscire a concentrarmi”.