Qualche tempo fa è uscito un bel libro pubblicato da Giunti, l’autobiografia di uno dei cuochi più rock di tutti i tempi: Marco Pierre White.
Il titolo è eloquente: “The devil in the kitchen – La vita dannata di uno chef stellato”.
Sulla copertina c’è la foto dell’inglese da ragazzo: bianco e nero sporco, aria dannata, sigaretta a penzoloni tra le labbra, capelli arruffati. Diamine quanto era rock. Ciononostante ha preso tre stelle giovanissimo, è stato maestro di Blumenthal e Ramsay.
Oggi White ha cinquantacinque anni, è socio di un impero da decine di ristoranti e fa la pubblicità per il dado da brodo.
E’ normale che sia così: si nasce incendiari, si muore pompieri. Ciononostante prendo a prestito la sua parabola per farmi una domanda: non è che non c’è più spazio per i cuochi rock and roll?
Sì, i cuochi rock and roll, avete presente? Quelli intemperanti, che scazzottano, che si drogano, che si ubriacano, che fanno l’alba, che vanno a donne, che corrono veloci in macchina, che fanno un sacco di cose sbagliate ma quando cucinano, lèvati.
C’è stato un momento in cui questo sembrava il modello vincente: gli chef-star con le stesse caratteristiche, gli stessi vizi, le stesse virtù delle rockstar, dei calciatori, degli attori.
Invece –mi pare, ma potrei sbagliare– ci si è già stancati. Anche perché, diciamocelo, un calciatore, un cantante, un attore muovono soldi a palate, dunque possono permettersi produttori, procuratori, avvocati e rehab che li tengano in carreggiata, un cuoco, insomma…
I cuochi talentuosi di oggi sono più tranquilli, qualche volta persino salutisti, vanno in bici e fanno meditazione. Sono più seri già per conto proprio, ma è anche il mercato che li ha rimessi al proprio posto.
L’altro giorno ho incontrato un imprenditore che mi ha detto: “Sai? Ho cambiato cuoco. Questo nuovo non è un genio, ma è puntuale”.
Lo capisco: se i soldi fossero miei probabilmente la penserei uguale.
Ma da spettatore dico: che mondo sarebbe senza Maradona?