Gualtiero Marchesi ha sprovincializzato la cucina italiana liberandola dai canoni rigidi dell’appetito, di naso e palato. Così facendo l’ha resa colta e internazionale, in un equilibrio mente-cuore che coinvolge vista, cervello e apparato emozionale.
Con lui la preparazione di un piatto è diventata progetto, ha smesso di puntare su emozioni facili e immediate chiamando in causa altre discipline come fotografia e musica, con il fine di incuriosire il palato delle persone, stimolarlo in maniera intelligente. Chiedendo in cambio di accostarsi al piatto senza pregiudizi e condizionamenti ma in modo spontaneo.
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Non sarebbe stato possibile, altrimenti, introdurre in Italia la “nouvelle cuisine”.
COME SI DIVENTA GUALTIERO MARCHESI
Il più famoso dei cuochi italiani nasce a Milano, in via Bezzecca, da una famiglia di origine pavese. Frequenta prima l’Istituto Feltrinelli, poi la scuola di commercio di Lucerna per imparare le lingue, consapevole che gli sarebbero servite per la carriera di albergatore alla quale sembrava destinato.
Nel frattempo, sono gli anni Cinquanta, aiuta il padre che aveva aperto l’Albergo Mercato in via Cadore, di fronte all’attuale Largo Marinai d’Italia. La cucina era, allora, quella di una piccola trattoria, di ottimo livello ma gestita con semplicità da una minuscola impresa familiare.
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Sono gli anni che scatenano la passione, Marchesi divora i libri di chi opera direttamente in cucina e riesce con gli esempi a stimolare la creatività che sente bruciare dentro di sé, gli anni in cui compie la scelta definitiva del campo d’azione, l’alta cucina.
Le sue nuove ricette determinano il successo della cucina del ristorante Mercato, e sono l’inizio di una fortunata avventura.
Nel 1966 parte per far pratica e studiare da vicino i segreti della cucina francese, allora la prima del mondo. Arriva infine a Roanne, vicino Lione, dai fratelli Pierre e Jean Troisgros. Quando se ne va sostiene “di avere capito”, più tardi spiegherà: “avevo capito come si cucina, il rapporto con gli ingredienti, con il fuoco, come si fa a conservare la vitalità di un cibo e come lo si uccide”.
VIA BONVESIN DELLA RIVA: IL RISTORANTE CAPOLAVORO
Nel 1977, sempre nel quartiere natale di Porta Vittoria, il cuoco milanese apre il ristorante che sarà il compendio di questo lungo lavoro di preparazione: Gualtiero Marchesi in via Bonvesin della Riva, basato su un nutrimento sano, gustoso e facilmente digeribile, come a dire –fateci caso– le linee guida della cucina contemporanea.
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È subito successo, il ristorante diventa la culla della “nouvelle cuisine” italiana, un luogo di culto per gli appassionati che l’anno successivo ottiene dalla guida Michelin la stella. Saliranno a tre nel 1985, prima volta per un ristorante italiano.
[Nel 2008 Marchesi contesterà la Michelin e “restituirà” le stelle con questa motivazione: “Ciò che più m’indigna è che noi italiani siamo ancora così ingenui da affidare i successi dei nostri ristoranti —nonostante i passi da gigante che il settore ha fatto— a una guida francese. Che, lo scorso anno, come se niente fosse, ha riconosciuto il massimo punteggio a soli 5 ristoranti italiani, a fronte di 26 francesi. Se non è scandalo questo, che cos’è?”]
Il lavoro di Marchesi consiste nell’applicare le tecniche dell’alta cucina a piatti regionali, con l’obiettivo di valorizzarne i sapori originali. Come racconterà spesso nei suoi libri principali: Il Codice Marchesi, Il Grande Libro dei Cuochi, Il Grande Ricettario.
Da lombardo che lavora a Milano le sue materie sono i pesci d’acqua dolce come i lucci, il vitello, carne base della cucina lombarda, gli animali da cortile a carne bianca e rossa, il riso, la pasta all’uovo, gli ortaggi reperibili sui mercati locali. I suoi piatti lombardi preferiti sono riso e oro, la cotoletta alla milanese nelle molte versioni, il remake del filetto alla Rossini utilizzando il vitello.
In quello che è il vero laboratorio della futura cucina tricolore, Marchesi inizia a curare la razionalità dell’arredo e del corredo della tavola, la bellezza pesa tanto quanto la funzionalità.
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Alla fine Bonvesin della riva sarà un ristorante all’avanguardia, con uno stile di cucina nuovo e rivoluzionario, le tre stelle Michelin e il riconoscimento generale sempre sospeso tra i piatti più famosi: Riso oro e zafferano (1981), Raviolo aperto (1982) e Seppia al nero (1983).
L’ALBERETA E IL MARCHESINO
La drastica decisione di abbandonare il mondo in cui era vissuto e Milano per trasferirsi nel 1993 in Franciacorta, dando vita all’Albereta di Erbusco, pur riproponendo una cucina che non è solo cibo, ma un insieme di domande e risposte che tengono viva l’attenzione e stimolano tutti i sensi, non riuscirà a restituirci un Marchesi allo stesso, insuperabile, livello di Bonvesin della Riva.
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Intendiamoci, la condizione di laboratorio-bottega con il maestro che opera, insegna e controlla quello che gli allievi eseguono, da Carlo Cracco a Davide Oldani, darà comunque risultati splendidi, ma come nel caso dell’ultimo nato, il ristorante Marchesino –aperto nel 2008 a Milano, quindici anni dopo l’Albereta– il lungo declino di Gualtiero Marchesi è cominciato nella campagna franciacortina.
COS’È STATA LA CUCINA PER GUALTIERO MARCHESI
Marchesi era convinto che ignorando i prodotti locali il cuoco avrebbe perso il senso della stagionalità rischiando di proporre una cucina ripetitiva. Perché quando la cucina interrompe la ricerca del passato e smette di proiettarsi nel futuro, escludendo i prodotti del territorio e la loro stagionalità, finisce per assomigliarsi un po’ tutta.
Ma per il grande milanese –Ambrogino d’oro, Cavaliere nonché Commendatore della Repubblica Italiana– la cucina è stata soprattutto leggerezza.
La cucina saporita, così apprezzata un tempo, era ridondante, ricca di grassi e di condimenti aggiunti. Era necessario spogliarla, togliendo cappe di cotture estenuanti, di soffritti onnipresenti, di uso eccessivo di olio e burro, quando non di strutto e lardo.
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Marchesi era convinto che ingentilendosi, la cucina si sarebbe elevata di tono, perché, scriveva, “è la leggerezza a connotare l’alta cucina, leggerezza che consente di ottenere due risultati, il gusto del commensale diventa più sensibile e la sua salute ne guadagna”.
In tempi non sospetti, come testimoniato dalla grande mostra che gli è stata dedicata nel 2010, al Castello Sforzesco di Milano, Marchesi indicava nella cucina giapponese, dove sono praticamente assenti soffritti e rosolature e le cotture sono rapide, eseguite al momento, un esempio di rigore e semplicità.
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Una cucina forte, consistente, strutturata, sicura, concepita da un cuoco dal quale si ha voglia di apprendere, di essere guidati. L’idea è quella di scomporre per esaltare ogni elemento e le sue caratteristiche, a costo di sembrare troppo “semplici” o “minimalisti”.
Ma l’obiettivo della cucina di Gualtiero Marchesi è sempre stato quello di scendere fino al valore più puro, anzi, abbandonare lo spettacolare per entrare nel bello-puro, che alla fine dei conti è il vero buono.
[Crediti | Foto copertina: Carlo Facchini. Fonti: Marchesi si nasce: questa è la mia storia; I love Milano; Oltre il fornello: segreti e consigli del re dei cuochi]