L’altro ieri ho incontrato un giovane cuoco.
Ci conosciamo da tempo, e dalla prima volta che ho mangiato i suoi piatti l’ho stimato. Saranno stati sei, sette anni fa, ancora ragazzo era arrivato in un bel locale di fascia media, l’avevano messo a condurre le partite degli antipasti e dei dolci. Faceva il proprio mestiere con passione, capacità e serietà.
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Per qualche tempo ho mangiato lì quello che preparava. Poi ricordo che passò ad altro ristorante, più formale, e anche qui non sfigurava affatto, sempre serio, sempre preciso. Anche in questo locale sono andato e tornato, trovandomi sempre bene.
Poi ha lasciato e l’ho un po’ perso di vista.
Finché lunedì non lo incrocio in un bar, mentre ci prendiamo un caffè con i rispettivi amici. “Dove sei, adesso?” gli chiedo. “Ho smesso: studio, mi sono iscritto all’università. Faccio Scienze dell’alimentazione”. E mi racconta che sì, continua a fare qualche extra in un ottimo ristorante (che amo), ma vuole laurearsi.
È ancora molto giovane –si sa, i cuochi cominciano prestissimo–, ha tutta la vita davanti. Io trovo la cosa interessante e bella, come è sempre bello vedere ragazzi che hanno voglia di formarsi.
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Il cuoco è un mestiere che dà certo soddisfazioni, ma è duro, vampirizza tanti spazi della vita privata e passata la sbronza mediatica tornerà a essere un onesto lavoro come tanti altri, come il carrozziere, il tranviere, l’impiegato, con i suoi pregi e i suoi difetti.
Io credo che avere un piano B (o un piano A, addirittura) sia un’ottima idea. A venticinque anni il destino non è segnato. E se uno, dopo un decennio di padelle, vuol veder cosa c’è fuori dalla cucina, lo capisco.
Buon vento a lui e a tutti quelli che prendono in mano il futuro, mettendo in discussione le proprie sicurezze.