“Che fine ha fatto Davide Scabin?” è la domanda che non ci stavamo facendo. Ci ha pensato Valerio Massimo Visintin, che per Excellence Magazine ha intervistato lo chef del Combal.Zero, di Rivoli (TO).
Una domanda retorica che il critico mascherato del Corriere della Sera si è posto per spiegarci quanto ipocrita sia il dorato mondo del food. Uno dei suoi personaggi più riusciti, lo chef sciupafemmine tutto genio e sregolateza, non riesce più a far parlare di sè.
L’ultima volta che Scabin è balzato agli onori delle cronache è stato nel 2015, quando la guida Michelin ha levato la stella allo chef piemontese del cyber-egg.
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E adesso, dov’è? “Semplicemente dove non dovrebbe essere: sul ponte di comando del suo ristorante”, si risponde Visintin, che incalza il cuoco. E quell’altro, Scabin, gli dà corda, tanto che i ruoli si confondono, non si capisce più chi è l’intervistato e chi l’intervistatore.
E forse ci siamo confusi anche noi: cercando di interpretare le parole del critico, che in questo caso è lo chef, abbiamo intervistato l’intervistatore.
D: Scabin che elenca i mali del sistema gastronomico: le relazioni con il potere economico, i giornalisti da concupire, gli sponsor. Che succede, è diventato il tuo alter ego?
V: “Non proprio, la differenza tra a me e lui sta nel distacco con cui fotografa la realtà, senza pigiare l’acceleratore sulla critica. Al di là delle opinioni condivise, ho apprezzato la sua franchezza: se facessi la stessa intervista a un altro chef di quel calibro, probabilmente non direbbe le stesse cose. ”
D: Ma a giudicare non è lo stesso Scabin che di quel sistema si è nutrito per anni?
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V: “Stiamo parlando di uno che sostiene di aver contribuito fortemente alla fondazione di Identità Golose: è consapevole del mondo nel quale si è mosso fino ad adesso. Dice di aver scelto di uscirne, ma io ho l’impressione che lo abbiano messo in panchina, e anzi credo che voglia rientrarci dalla porta principale, tornare a far parte di quell’humus.
Pensa all’esilio di Gualtiero Marchesi, che aveva rinunciato alle stelle Michelin ed è stato punito con il silenzio: è stato abbastanza penoso vedere il pentimento post-mortem dell’intero settore. Ma quella di Scabin è una presa d’atto, più che un giudizio di valore. Prende atto, per esempio, che si è avvantaggiati ad accettare certi sponsor”.
D: Penso alla World’s 50 Best Restaturant”, che tu definisci “la classifica della Nestlè”. Scabin parla di un “investimento in relazioni” necessario per farne parte, ho pensato che parlasse di Massimo Bottura. Ma non fate nomi.
V: “Sì, anche io ho avuto l’impressione che parlasse di Bottura. Ma non possiamo saperlo. Quello che dice Scabin, più esplicitamente, è che entra nella “50 Best” ad anni alterni, e in particolare quando c’è il Salone del Gusto. Si accorgono di lui quando i riflettori si accendono su Torino. Boh.”
D: A un certo punto lo chef parla di “un’omologazione micidiale”, di chef interscambiabili e di piatti tutti uguali. Sei d’accordo?
V: “Ma certo. A Milano, per esempio, fanno tutti la stessa cosa. Adesso è il momento della cacio e pepe, sai? Bisogna fare la cacio e pepe con qualcosa. Il pesce, invece, non esiste più: è una scaloppa a forma di parallelepipedo appoggiata a qualcosa, e la differenza tra gli chef sta in quel qualcosa su cui appoggiano la scaloppa”.
D: La critica parla molto di chef e sempre meno di ristoranti, perché secondo te?
V: “Perché è il modo che abbiamo trovato per promuovere il giornalismo di settore, per sopperire a una crisi. Una volta non si sapeva neanche chi fossero, gli chef, oggi invece non si parla più di cibo. Si parla di ristoranti legati assieme dagli sponsor, che poi sono sempre gli stessi.
D: Insomma, la critica gastronomica è in crisi, ma pure gli chef non si sentono molto bene. Cosa cambia tra un critico mercenario e uno chef che promuove un prodotto discutibile?
V: “Da una parte c’è un esercizio commerciale anomalo, una ristorazione che non sta in piedi da sola e che dovrebbe estinguersi, perché se non guadagni abbastanza da pagare tre cuochi che compongono un piatto di pasta, evidentemente dovresti chiudere. Un mondo che teniamo in piedi noi, parlandone.
Dall’altra c’è una funzione sociale (perché il giornalismo gastronomico, pure quello, è un baluardo della democrazia) a cui non possiamo rinunciare, e che sta sparendo perché, per esempio, le aziende che dovrebbero sostenere l’editoria preferiscono convogliare il proprio denaro in altre forme, negli “influencer”, per dirne una.
D’altronde il giornalismo fa la sua parte: quando ho chiesto a una collega perché non parlasse dei rapporti tra Unico e la mafia, mi ha risposto che non rispecchiava la linea editoriale, troppo patinata”.
D: Dice Scabin che ultimamente gli fanno visita “vecchi giornalisti del settore”, che vorrebbe “creare un movimento carbonaro con amici che siano liberi dagli schemi delle lobby e dei gruppi editoriali”. A chi si riferisce?
V: “Non saprei, c’è qualcuno che non lavora per Identità Golose? Perché sono ovunque, e decidono tutto loro: chi sale e chi scende dalle classifiche. Adesso si aprono un ristorante, in centro a Milano, dove si alterneranno gli chef, come accadeva a Expo. Chissà se questa volta li pagano, per cucinare.
D: Cosa ci siamo persi della tua chiacchierata con Scabin?
V: “La storia del sale. Chiederesti mai il sale da uno stellato?”
D: Non si dovrebbe?
V: “Si DEVE fare, anche solo per vedere la loro faccia. Scabin ha un set di sali diversi, a disposizione dei clienti”.