Se vi sembra impossibile che i food truck possano fare concorrenza sleale a un ristorante stellato, forse dovreste chiedere il parere di Carlo Cracco, di Moreno Cedroni, della famiglia Santini, di Claudio Sadler o degli altri ottanta chef che hanno firmato l’appello del Fipe (la Federazione italiana pubblici esercizi), contro tutti quegli esercizi che – a loro parere – fanno “concorrenza sleale” alla ristorazione.
Pur avendola richiesta, non siamo riusciti a entrare in possesso della lista dei firmatari del manifesto che in queste ore ha chiesto al governo una maggiore regolarizzazione di tutte quelle forme ibride di somministrazione alimentare, ma dal Fipe ci confermano i numeri (e qualche nome): circa 80 gli chef stellati (e oltre cento i ristoratori meno blasonati) che hanno sottoscritto l’appello, che non si rivolge solo alla categoria dello street food.
Avete presente quelle gastronomie dove, da qualche tempo a questa parte, ci si può sedere e mangiare in loco quello che si è ordinato? O quelle macellerie che hanno aggiunto qualche tavolo dove servire un po’ di carne alla brace? È anche di loro che si parla. Come, anche, dei “finti” agriturismi o dei circoli privati (che celano invece ristoranti a tutti gli effetti), o delle macellerie e pescherie con somministrazione equiparabile ai ristoranti e casi del genere.
Insomma, il problema sono tutti quei pubblici esercizi che offrono un servizio da ristorante senza dover seguire gli stessi obblighi normativi dei primi. Un’ambiguità facilitata dalle liberalizzazioni bersaniane, che – spiega al Sole24 Ore Lino Enrico Stoppani, presidente del Fipe – sono state interpretate in modo distorto e, a causa di ciò, “un esercizio la cui attività principale è quella di vendere prodotti alimentari può di fatto fare ristorazione offrendo ai propri clienti la possibilità di consumare in loco tali prodotti senza per questo dover sottostare a tutte le regole imposte a bar o ristoranti”, come, ad esempio, “la presenza di servizi igienici adeguati alla frequentazione del locale o la presenza di locali idonei alla lavorazione dei prodotti. Per non parlare degli oneri tributari, come le tasse sui rifiuti, che sono diverse fra le categorie e sensibilmente più onerose per chi fa somministrazione”.
Per capire in che modo la liberalizzazione del mercato della somministrazione possa aver danneggiato il settore, abbiamo chiesto il parere di Antonio Santini, patron dello storico ristorante tristellato Dal Pescatore di Canneto sull’Oglio, che argomenta la sua adesione all’appello del Fipe non solo in qualità di ristoratore ma anche come vice presidente dei ristoranti delle Soste. “È chiaro che per stare sul mercato tutti gli operatori devono avere le stesse regole”, spiega Santini. “Se è giusto e fondamentale che un ristorante abbia tutta una struttura messa a norma e debba sottostare a regole sanitarie importanti, è indispensabile che chiunque metta le mani su prodotti alimentari possa garantire al consumatore finale un prodotto sicuro dal punto di vista igienico sanitario. Questo purtroppo non sempre è vero”. È qui che si forma il nodo che fa parlare di “concorrenza sleale”: “Tutti gli operatori che operano in un determinato settore in uno stesso Paese dovrebbero avere le stesse regole e normative per lo stesso mercato. Senza contare che l’aspetto igienico- sanitario e quello legato alla sicurezza dovrebbero essere prioritari”, spiega Santini. Ma è davvero plausibile che un ristorante stellato veda come una minaccia, per esempio, la piccola macelleria che ha aggiunto qualche tavolino al negozio, o addirittura il paninaro fuori dalla discoteca? “Non è una questione di grandi chef contro piccole realtà”, dice Santini. “Tutti i ristoranti devono sottostare alle stesse regole ferree, e queste devono essere valide per tutti gli operatori che manipolano il cibo”.
Per questo, quindi, il Fipe ha deciso di mettere la parola “fine”, portando con sé un seguito di illustri firmatari. Ne è nato dunque l’appello, trasmesso ai vice premier Matteo Salvini, Luigi Di Maio e a Gian Marco Centinaio, ministro delle Politiche agricole e del Turismo. “Ogni giorno nelle scelte politiche si incentivano settori che effettuano di fatto somministrazione, senza essere sottoposti alle stesse regole che si applicano alla ristorazione e ai pubblici esercizi in generale.”, si legge sul manifesto. “La disparità di condizioni non genera nel mercato soltanto concorrenza sleale, ma finisce per impoverire il mercato stesso nel momento in cui le attività di ristorazione chiudono, magari per reinventarsi in esercizi più semplici, dove tagliare i costi del servizio e di preparazione, con effetti immaginabili sulla qualità del prodotto, sui rischi alimentari dei consumatori, sull’occupazione del settore e l’attrattività delle nostre città.
Non chiediamo meno regole: chiediamo che vengano applicate le stesse regole per la stessa professione, anche a tutela e a salvaguardia dei 10 milioni di clienti che ogni giorno frequentano i Pubblici Esercizi.
Non chiediamo meno concorrenza: auspichiamo, anzi, che ce ne sia sempre di più, ma per migliorare il mercato, non per renderlo più fragile.
Non chiediamo privilegi o corsie preferenziali: chiediamo alle Istituzioni più attenzione e un tavolo, promosso dai ministeri competenti, con la partecipazione dei diversi attori della filiera – che apparecchi una visione strategica complessiva e consapevole per il settore.”
Difficile dar torto a chi firma quest’appello: se le regole valgono per me, allora devono valere per tutti. Non fa una piega. Ma rimane il fatto che ci sembra difficile immaginare che i food truck, o i circoli privati, possano davvero costituire una forma di concorrenza, non tanto per i ristoratori comuni quanto per i ristoratori stellati. E non è neanche vero che non ci siano regolamentazioni da seguire per chi intraprende forme di ristorazione “ibride”. Ne è convinto, ad esempio, Felice Lo Basso, una stella Michelin a Milano e un’esperienza passata – come tanti – con un food truck stellato: “C’è stato un momento, un paio di anni fa, in cui in tanti abbiamo tentato la formula del food truck gourmet, perché andava molto di moda”, spiega Lo Basso. “Qualsiasi collega ci abbia provato, come me, può testimoniare la difficoltà di un’attività di questo tipo, sia a livello logistico che normativo. Non a caso, ora non lo fa più nessuno. E poi, sinceramente, a me non sembra che la concorrenza di esercizi simili possa rappresentare una minaccia per noi stellati: le operazioni che ci danneggiano e che fanno concorrenza sleale sono ben altre”. Rimane sul vago, Lo Basso, su quest’ultimo punto, ma è palese che abbia le idee ben chiare su cosa possa danneggiare l’attività di uno stellato di una grande città. Noi, da parte nostra, non vediamo l’ora che ce lo racconti.