Buone notizie dalla “Rossa” in edizione 2018 per le grandi tavole italiane, i ristoranti con tre stelle Michelin salgono a nove grazie a Norbert Niederkofler, chef del St. Hubertus, ristorante ricavato all’interno di un piccolo scrigno delizioso come l’hotel Rosa Alpina di San Cassiano (Bolzano), in Alta Badia.
Per raccontarvi meglio chi è Norbert Niederkofler, e come è arrivato al massimo riconoscimento assegnato dalla Guida Michelin, ripubblichiamo l’intervista data dallo chef a Dissapore quando, il 30 giugno 2016, il ristorante altoatesino ha compiuto 20 anni.
Il St. Hubertus, il ristorante dell’albergo Rosa Alpina a San Cassiano in Alta Badia, ha da poco compiuto vent’anni.
Da vent’anni in cucina c’è Norbert Niederkofler, che in questo lasso di tempo ha trasformato un ristorante d’albergo il cui pubblico di riferimento erano i forzati dell’après-ski con gli scarponi ancora indosso (“a un certo punto abbiamo dovuto fare due ingressi separati, lasciavano pozzanghere d’acqua e neve ovunque”) in una delle migliori tavole d’Italia.
Per festeggiare, il ristorante ha creato un menu speciale: venti piatti, uno per anno, disponibili soltanto per 20 giorni: una sorta di carotaggio che consente di ricostruire due decadi di storia dell’alta gastronomia italiana, nella visione di un cuoco con una sensibilità molto personale.
Come ogni celebrazione di compleanno, questa ricorrenza è anche l’occasione per il festeggiato di farsi congratulare per i suoi successi, e anche di esternare alcune considerazioni sul tempo che passa e su cosa, invece, resta.
Utilizzando questo menu come spunto, ho chiesto a Niederkofler come ha costruito questo percorso, come è cambiata la (sua) cucina negli ultimi vent’anni, e cosa gli resta ancora da fare.
D. Quest’anno hai trasformato un evento di successo come la Chefs’ Cup nel Care’s, dedicato alla cucina sostenibile
Nel menu dei 20 anni compare una Variazione di fegato grasso che risale al 2000, l’anno in cui il ristorante prese la prima stella Michelin: mi pare, tra tutti i piatti in menu, quello che più chiaramente mostra i suoi anni. Potresti raccontarmi questo piatto, e spiegarmi perché lo hai scelto?
L’ho scelto perché il fegato grasso è un prodotto principe in gastronomia: è molto buono e anche interessante. La versione classica, alla francese, è la terrina di foie gras con il pan brioche, che trovo stancante.
Così quindici anni fa ho creato una sorta di piccola degustazione composta da tre piatti: una crème brulée con aceto balsamico bianco, la cui acidità ripulisce la bocca; una terrina dove invece di togliere ho aggiunto l’anguilla – grasso su grasso; infine ho abbinato foie gras e tartare di scampi.
Il principio è quello dell’equilibrio tra yin e yang: morbido/croccante, salato/dolce, grasso/pulito.
Oggi, con il fegato grasso abbiamo due ordini di problemi: il primo è che da sei anni abbiamo abbracciato il concetto di “Cook the mountain” (insomma “Cucina la montagna”) e perciò usiamo solo ingredienti locali.
Il secondo è etico: sono a disagio con il maltrattamento delle oche, quindi stiamo cercando un fegato grasso senza gavage, alimentazioni forzata, ma il sapore non è lo stesso, quindi per il momento abbiamo deciso di lasciar perdere.
D: Qual è invece un piatto simbolo dell’evoluzione del tuo percorso?
Direi gli “Gnocchi di rapa rossa, un piatto del 2013”
È un piatto ideato ricreando la natura, immaginando una rapa in un orto: c’è la sensazione della terra bagnata, data da briciole di pane al carbone vegetale e birra fredda; poi c’è il contrasto tra la dolcezza della rapa e il rafano. Il daikon arriva alla fine, per ripulire.
D: È così che nascono tutti i tuoi piatti, imitando la natura?
Questa è una delle tecniche. Un’altra cosa che mi guida è evitare gli sprechi di cibo: oggi dal 30% al 50% del cibo viene gettato. Eliminando gli sprechi, e aumentando del 20% il costo di ciò che si acquista comprando materie prime di maggiore qualità, si mangia meglio e si risparmia.
Capita che un piatto nasca con questo obiettivo in mente: prendiamo una materia prima e ne utilizziamo tutte parti impiegando tecniche differenti, come facciamo in “C’era una volta la trota”, dove serviamo la carne in una tartare non salata, la pelle del pesce a parte, essiccata e fritta, mentre con le lische e la testa abbrustolite prepariamo un salsa beurre blanc.
A volte l’ispirazione viene da vecchi metodi di conservazione, come il fieno, o la cenere, o le foglie di castagno. O anche da un’immagine: un nostro dessert, tutto sulle tonalità del rosso, è ispirato a un tramonto sulle Dolomiti; in inverno ne abbiamo un altro basato sul bianco, in omaggio alle nostre montagne pallide.
D: Prendendo questi due piatti come punti di principio e d’arrivo, come descriveresti l’evoluzione della tua cucina?
Nel costruire un menu che copre 20 anni di lavoro la difficoltà è essere riconoscibile: un cuoco deve avere uno stile come uno scrittore o un fotografo, un fil rouge che unisce tutte le creazioni.
In ciascuno dei miei piatti ormai ci sono solo due o tre cose e devono essere sempre perfette: ho capito che se ce ne metti 10 ti stai solo complicando le vita.
Le cose importanti sono due: semplificare e lavorare sulla qualità. L’orto fa la differenza: è solo se le fragole non sono buone che in cucina sei costretto a fare i salti mortali. L’ambiente in cui sono immerso mi influenza: la natura è ogni giorno una maestra di perfezione.
D: È una traiettoria che mi pare comune a molta alta cucina in tutto il mondo, è esatto?
Sì, ma c’è anche una peculiarità italiana: la cucina italiana è prodotto. Qualche anno fa, ai tempi d’oro di Lo Mejor de la Gastronomia [celebre congresso spagnolo di alta cucina, N.d.R] a San Sebastian non si parlava di prodotto: si parlava di tecnica.
Lo stesso vale per la cucina nordica che non è cultura, bensì una geniale idea di business.
In Italia l’interesse intorno ai cuochi è recente, prima c’era la cucina della nonna e della mamma: una cultura in cui il motto era fare di necessità virtù, non fare scena.
Prendiamo ad esempio la fermentazione, che adesso va di gran moda: da sempre, è un escamotage per mettere da parte in estate il cibo da mangiare in inverno, come la conserva di pomodori.
D: Facciamo un passo indietro: come si fa ad avere un ristorante che non solo resta di successo per vent’anni, ma anche rimane rilevante, interessante?
Ho sempre corso dei rischi. Tanti ristoranti classici fanno sempre le stesse cose, e questo significa rischiare poco. Io, invece, non sto bene nella routine, mi rende insoddisfatto: sono sempre alla ricerca, mi piace vedere cose nuove.
Dal Pescatore, per esempio, può ben essere il miglior ristorante d’Italia ma da cinquant’anni hanno gli stessi piatti. Ho il massimo rispetto per il lavoro che fanno ma io, semplicemente, non potrei. Quando le cose mi stufano non le faccio più.
D: Ma questa volontà di cambiare è più un principio di business – serve a mantenere il ristorante sulla breccia – o è una questione di principio?
Quando non sei più soddisfatto è il momento di operare dei cambiamenti, anche quando richiedono coraggio. Prendiamo ad esempio un appuntamento rinomato come Chef’s Cup: non ero più contento, non mi ci riconoscevo più. Troppa gente, troppo casino, solo lifestyle.
Però continuava ad avere un enorme successo: ho deciso di cancellare un evento che portava 4 milioni di euro di stampa in una settimana. Quanti altri l’avrebbero fatto?
Lo stesso è accaduto quando ho deciso di adottare la filosofia di “Cook the Mountain”: i signori Pizzinini (proprietari del Rosa Alpina, N.d.R) erano un po’ perplessi, e io ero ben consapevole che se fosse andata male sarei stato io a pagarne le conseguenze.
Il mio ragionamento era questo: più giri il mondo, più ti rendi conto che tutti cucinano le stesse cose. Quindi, se voglio portare clienti da Londra o dall’Asia o da New York è inutile che faccia cucina internazionale.
D: Molti clienti dell’albergo sono internazionali. Cosa significa avere un ristorante all’interno di un hotel?
Da una parte comporta un vantaggio, dall’altra è un po’ complicato. Vediamo i lati positivi: una parte della clientela si travasa direttamente dall’albergo, ma anche per la struttura è un valore aggiunto: nella cucina c’è sempre qualcosa di nuovo, e questo mantiene l’hotel interessante, anche per la stampa.
Poi ci sono i grattacapi: a Natale abbiamo lunghe liste d’attesa per clienti che vorrebbero prenotare al ristorante, ma noi dobbiamo necessariamente riservare alcuni tavoli per gli ospiti dell’albergo nel caso decidano di cenare da noi all’ultimo momento: o pensi che si possa dire a un cliente che spende 2 o 3 mila euro per una suite che non c’è posto al ristorante?
Nel 2000, quando abbiamo tolto la mezza pensione, siamo stati la fortuna degli alberghi vicini: la nostra clientela è cambiata completamente nel giro di poco, e una parte ovviamente l’abbiamo persa. Con la congiuntura economica attuale non so se avremmo il coraggio di fare qualcosa di altrettanto radicale: allora è stato più semplice, ci abbiamo messo un paio di anni a tornare a regime.
Oggi abbiamo una clientela diversa, molto più esigente. A livello personale questo per me è bellissimo: se tra i tuoi ospiti c’è gente interessante impari tantissimo anche tu. E sei nella posizione migliore per farlo, perché io da questi ospiti non voglio niente, sono loro a essere incuriositi da me.
D: Nel menu dei trent’anni cosa ci sarà?
Sono consapevole che i miei anni di lavoro futuro non sono moltissimi, e adesso voglio lavorare con – e per – i giovani. Voglio godermi questo periodo con giovani che hanno imparato qualcosa da me [il sous-chef di Norbert, Michele Lazzarini ha 24 anni N.d.R], e anche per questa ragione uno dei progetti di Care’s sono delle borse di studio.
Non sono geloso di niente. Quello è importante per me a questo punto del mio percorso è lasciare un’eredità. Nessuna delle mie ricette è segreta: la do a chi la chiede, con una sola raccomandazione: eseguila bene. Se la fai meglio di me, sono il primo a congratularmi.
[Crediti | Link: Dissapore, immagini: Daniel Töchterlè, Ugo Bernhart]