Ve lo immaginate uno chef che legge da capo a piedi la Divina Commedia per imparare l’italiano? Il poema dantesco è ostico pure per chi mastica bene la lingua, considerando che è scritto in terzine incatenate di endecasillabi in lingua fiorentina, figuriamoci per uno straniero. Eppure Jeremy Chan lo ha fatto. Oltre alla sua passione per le lingue – ne conosce sette! – è legatissimo alla cucina della sua infanzia. Quella che ha assaggiato ad Hong Kong, dove è cresciuto per otto anni. Riso al cocco, gamberi caramellati e olive nere è il suo piatto comfort food preferito. Ma chi è lo chef ospite, per la seconda volta, a Masterchef?
Breve biografia, dal 1987
Iniziamo col dire che è giovane, ha poco più di trent’anni, e ha vissuto gran parte della sua vita in viaggio. Vuoi perché sia la mamma sia il papà sono originari di due paesi molto differenti tra loro (lei è canadese, lui cinese) vuoi perché ha un innato interesse per le culture del mondo. Tanto è vero quest’ultimo aspetto che nel suo ristorante di Londra non ha pensato di riprodurre tout court una cucina ben definita conosciuta magari durante l’infanzia, ma è andato fuori dagli schemi mescolando ingredienti difficili come quelli africani e ispirazioni provenienti da diverse parti del mondo. Il suo locale – che gli è valso una stella Michelin – porta il nome di un quartiere benestante di Lagos, in Nigeria. Ikoyi.
Lo abbiamo visto nella stessa trasmissione già l’anno scorso: volto pulito, un ottimo italiano e una buona dose di umiltà (caratterista che non sempre appartiene ai cuochi stellati). ‘Estraniante’ è la parola giusta per definire il suo progetto, e più avanti spiegheremo anche perché.
Intanto, un breve riassunto. Chef Chan è nato nel Regno Unito da un avvocato cinese e un’insegnante di danza canadese. Però la sua infanzia, come detto, l’ha vissuta tra i grattacieli e la multiculturalità di Hong Kong, ex colonia britannica, in cui ha immagazzinato un gran bagaglio di sapori cinesi e internazionali. Si è poi spostato negli Stati Uniti e in Canada, per poi tornare in terra britannica. Una cosa interessante della sua vita professionale è che non ha un passato da enfant prodige della cucina. Non è nato con le padelle in mano ma ci è arrivato da grande.
Prima ha studiato, tant’è che si è laureato in filosofia e lingue a Princeton, e poi ha pure fatto un altro lavoro, in Spagna come analista finanziario. Ad un certo punto, però, ha mollato tutto e ha intrapreso la strada (ossessiva) di interpretazione del gusto. Elencare minuziosamente i curricula è sempre noioso, quindi di lui diremo ‘solo’ che, dopo il cambio di vita, per quattro anni ha studiato sul campo nelle cucine stellate del Noma con Rene Redzepi e al Dinner by Heston Blumenthal.
Ikoyi, il ristorante di Londra vicino all’Africa di Jeremy Chan
Il suo amico di infanzia si chiama Iré Hassan-Odukale, nigeriano di Lagos ma cresciuto in Inghilterra. Ha lavorato per anni nel settore delle assicurazioni. Insieme hanno aperto Ikoyi. Un ristorante estraniante, dicevamo, per tre motivi. Se ci vai per la prima volta ti chiedi perché due giovani emergenti della ristorazione hanno aperto il loro primo ristorante in un quartiere così turistico come quello del centro, nel West End londinese, a due passi da Piccadilly Circus e Soho. Non sono i primi a farlo, per carità, però quando gironzoli per le vie piene di souvenir che ritraggono la regina Elisabetta e le mitiche cabine telefoniche rosse, un po’ di stupore viene fuori.
Il secondo elemento è la location: molto più vicina all’idea francese della bistronomie che a quella delle lussuose e impeccabili tavole gourmet che spesso le guide tendono a premiare. Ma è ormai storia corrente che Londra e tutto il Regno Unito corrono una maratona a parte quando si parla di premi e riconoscimenti, anche i pub raggiungono certi podi. Da Ikoyi l’informalità è sovrana. Il ristorante comunica volutamente con l’esterno grazie alla parete finestrata che percorre tutto un lato del locale, ma la vera sorpresa è all’interno: il chiacchiericcio continuo e il sovraffollamento dei tavoli nell’era pre-covid rompono l’ingessatura solita dei locali altolocati. In alcuni momenti il rumore di sottofondo dà anche un po’ fastidio. Il servizio è dinamico, a volte un po’ disattento (almeno nella nostra esperienza), ma sicuramente cordiale. La cucina dove lavora Chan è molto piccola.
Il terzo elemento estraniante è la cucina. Alcuni la definiscono erroneamente “africana”. Si utilizzano molte spezie dell’Africa occidentale subsahariana e, a volte, vengono proposti piatti provenienti da quella zona, ma completamente rivisti. Vi è mai capitato di mangiare in un ristorante stellato un platano fritto ricoperto di peperoncino affumicato? È un po’ il piatto simbolo di Ikoyi, per la sua bellezza e soprattutto per i suoi sapori accesi. Ricorda la superficie di Marte. Nei primi mesi di apertura, prima che arrivasse il riconoscimento Michelin, era un piatto molto impegnativo da mangiare, tant’è che è stato rivisto aggiustando l’intensità delle spezie.
Mangiare la cucina di Chan è davvero divertente. Ok, è vero, alcuni piatti rispettano visivamente i canoni dell’alta cucina, ma molti altri no. Un esempio? Il piattone di riso Jollof affumicato, con kebab di pecora invecchiata e crema di granchio a mo’ di topping. Sembra un ‘mappazzone’ ma il sapore è esplosivo e buonissimo, il riso al dente come piace a Chan (e a noi). Bisognerebbe avere il coraggio di chiedere il bis.
La cucina di Chan ruota anche intorno alla micro-stagionalità britannica: verdure coltivate nelle giuste stagioni, pesce pescato con la lenza e manzo autoctono invecchiato. Rimane impressa la rana pescatrice servita con prugna fermentata e semi di sesamo. Il frutto è lavorato benissimo, tanto da riuscire a valorizzare la polpa croccante del pesce.
E come dimenticare quel momento della cena dove ti viene servito un pezzo di cavolo cappuccio. Stupore e scetticismo si alternano prima di assaggiarlo. Beh, forse è grazie a quel piatto così semplice, dal retrogusto di arachidi, che stiamo ancora pensando a Ikoyi.
Ps: ci è capitato di aggiungere il caviale a uno dei piatti di Chan, quello con la pancia di trota, così come consigliato dal cameriere che ci ha servito. Peccato che la scelta ci sia costata 30 pound in più a piatto senza che ci venisse detto.
[Immagini: Sonia Ricci]