Immaginate per un momento di essere un’azienda produttrice di, per esempio, detersivi, spray detergenti o qualsiasi altro intruglio chimico destinato alle pulizie. A fronte di una sempre crescente sensibilità del pubblico rispetto alle problematiche ambientali, pensate bene di intercettare questa tendenza con un packaging che si fregia di tutte le più rassicuranti tonalità del verde, producete campagne pubblicitarie degne del national geographic con prati lussureggianti, cascate, farfalle e florilegio di lessico sostenibile, ovviamente guardandovi bene da qualsiasi intervento che possa concretamente ridurre l’impatto ambientale della vostra attività. Congratulazioni, vi siete macchiati del crimine (ancora non punibile, furbacchioni) di greenwashing.
Strategia esecrabile ma, purtroppo, imitata ormai in molti altri ambiti e declinata in tutte le variazioni cromatiche, fino al rainbow washing che vede le immagini profilo di multinazionali senza scrupoli ammantarsi di tutti i colori dell’arcobaleno in vanaglorioso supporto delle cause LGBT, evitando accuratamente di esporre queste posizioni là dove dove i diritti vengono quotidianamente calpestati. Non ci sta sfuggendo, purtroppo, che da questi “risciacqui” non è esente nemmeno il nostro amato mondo del food, mutatis mutandis. Dobbiamo prenderne atto, il fenomeno dello “chefwashing” è tra noi, e si sta subdolamente diffondendo.
Testimonial o chefwashing?
Lo sappiamo, i testimonial nella pubblicità sono sempre esistiti, e le collaborazioni o consulenze con cuochi di grido pure. E allora, cosa li rende colpevoli di chefwashing? Semplice: intenzione ed esecuzione; facciamo qualche esempio. È evidente -anche nell’idea di partenza del committente della campagna pubblicitaria- che un chewing gum non avrà mai una prerogativa gourmet, e nemmeno Antonino Cannavacciuolo potrà mai creare confusione nell’utente e, mi sento di dirlo (pronto per essere smentito) non troveremo gomme da masticare allo xilitolo nella piccola pasticceria di Villa Crespi. Se l’intenzione è invece quella di associare al marchio di turno valori gastronomici, allora la differenza tra un testimonial e una marchetta la fa l’esecuzione, la riuscita effettiva del prodotto finale.
Prendiamo un esempio storico, dagli albori della comunicazione gourmettara: Gualtiero Marchesi al McDonald’s. Il Maestro, da sempre decenni all’avanguardia, aveva già avuto le sue esperienze con l’industria, con inevitabile strascico di polemiche, ma parliamo del più recente, e dei suoi due hamburger (più un dessert), “Adagio” e “Vivace”. Al netto del successo commerciale, Marchesi riuscì nell’impresa, ed è ancora l’unico ad averla compiuta, di introdurre nella proposta del colosso del fast food concetti come una verdura appena scottata, la piccantezza allilica della senape in grani, il contrasto tra melanzana e ricotta salata, cose da considerare fantascienza ancora oggi, sopraffatti dalle sapidità dopanti. Una concezione che mi fa propendere verso l’idea di una vera collaborazione anziché di marchetta, cosa per la quale sarebbe stato comunque pioniere. Certo, i risultati spesso lasciavano a desiderare, ma forse il nostro primo tristellato era abituato troppo bene con la brigata dei suoi “boys”.
Wurstel e patatine gourmet?
E a proposito di Marchesi Boys, sappiamo già chi avevate in mente: tra patatine in varie ricette “audaci” e il menu firmato del Frecciarossa, voi maliziosi stavate pensando, come principale complice del reato di chefwashing, a Carlo Cracco. E potreste avere ragione, ne è sicuramente un campione rappresentativo, anche se non l’unico. Nei suoi casi, l’intenzione è proprio quella di dare una credibilità gourmet alle aziende di cui si fa testimonial, e sull’esecuzione i risultati sono stati esposti al pubblico ludibrio abbastanza da non doverci tornare in questa sede, ma proviamo ad andare oltre i casi lampanti del celebrity chef vicentino.
Abbiamo visto il nuovo restyling di Spizzico, il format del gruppo Autogrill dedicato alla pizza che, dai tempi dell’inaugurazione del Mercato del Duomo a Milano, lega la sua immagine a quella di Renato Bosco, vip del settore e comunicatore scaltro. Un ammodernamento generale, che ha visto il marchio affiancarsi ufficialmente al nome del “Pizzaricercatore”, con una palette di colori appositamente rinnovata, ma presentandosi comunque con una wurstel e patatine che grida vendetta.
Potremmo andare avanti all’infinito, ma le problematiche di fondo restano le stesse: i reparti di ricerca e sviluppo di aziende che servono svariate decine di migliaia di pasti al giorno, hanno veramente bisogno dell’ispirazione dello chef di turno per migliorare i loro prodotti? Qual è la necessità di legarsi a uno chef di grido se le condizioni (vedi cucinare su un treno) non permettono di ottenere risultati all’altezza? Sarà ingenuo da parte nostra, ma se si vuole effettivamente cambiare il passo sulla qualità dell’offerta, forse meglio investire sul prodotto, il modo migliore per veicolare qualità e dare senso agli inevitabili aumenti di prezzo legati a operazioni di questo tipo.