Ormai non c’è ristorante d’un certo livello che non abbia in menù un piatto con una fermentazione, una marinata, una leche di tigre, un intruglio, in arrivo da luoghi distantissimi nello spazio o nel tempo.
Va bene, benone, per carità: spesso sono cose squisite. E dunque: benvenute.
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Eppure mi dispiace che questo interesse per sistemi di conservazione e trasformazione antichi o distanti abbiano distratto i cuochi nostrani da tanti analoghi autoctoni di grande bontà.
Ci capiamo prima se faccio degli esempi: intendo i sottoli –dalle verdure al pesce–, i sottaceti –le verdure, soprattutto–, le salamoie –cosa sarebbero le olive senza salamoia?,– le salature –cosa sarebbero le alici senza salatura?–, ma anche cose più toste: tempo fa il grande cuoco abruzzese Niko Romito mi raccontava che la grande passione della sua infanzia erano le salsicce sotto strutto.
Aggiungo ancora canditure e conserve:
– Quant’è buona la giardiniera?
– Quant’è pazzesca la mostarda di Cremona?
– Quanto possono essere buoni la pasta d’acciughe o un concentrato di pomodoro?
In Italia si lavora abitualmente sulle marinate, ma l’unica vera novità degli ultimi anni in questo settore mi pare essere stata la colatura di alici: si può certo fare tanto altro, pensate ad esempio all’incredibile tradizione conserviera spagnola che mette in scatoletta scampoli di paradiso (avete mai assaggiato le latte di Albert Adrià? Sono distribuite anche in Italia, da Tartuflanghe se non erro; lo chef Moreno Cedroni e altri provarono in Italia ma senza troppa fortuna).
Sono tutti alimenti squisiti che è difficile trovare interpretati dai grandi chef. Ed è un peccato: capisco la voglia di esercitarsi in produzioni esotiche ma c’è tanto da lavorare anche su alcune preparazioni tipicamente italiane.
Così come i cuochi migliori ci stanno dimostrando che è possibile –eccome!– rendere ancora più buoni e contemporanei una lasagna o uno spaghetto col pomodoro, vorrei vedere cosa combinerebbero con le cipolline sott’aceto o i funghi sott’olio, troppo spesso lasciati all’industria e ai sue processi.
Se mai nell’alta gastronomia scoppierà la moda dei sottoli prometto che sarò lì, pronto, con la forchetta in mano. E il bavagliolo al collo, ché l’olio macchia.