Il suicidio di Benoit Violier, 44enne numero uno de La Liste, classifica francese che aggrega i 1.000 ristoranti migliori del mondo, è soltanto l’ultima prova che le cucine dei ristoranti più prestigiosi del mondo sono piene di pressioni paralizzanti, tentazioni illecite e demoni interiori in agguato.
In apparenza lo chef franco-svizzero, al culmine del suo personale successo, guardava il mondo dall’alto, dalla posizione privilegiata dell’Hotel de Ville de Crissier, non lontano da Losanna. Il ristorante di cui aveva preso le redini nel 2013 2012, quando l’aveva rilevato insieme alla moglie da Philippe Rochat, suo mentore e mito della cucina transalpina, era morto all’improvviso a causa di un infarto durante un’escursione in mountain bike lo scorso anno.
Per uno chef quarantaquattro anni significano poco e tanto. A quarantaquattro anni si è acquisita la capacità di raccontare attraverso i piatti, non una ma tante storie. E si può ancora inventare, sconvolgere, rimodellare un’intera gastronomia. I quarantaquattro anni di Benoit Violier lo avevano portato in cima.
Gault&Millau, Guida Michelin,World’s 50 Best, La Liste: ovunque contasse lui e il suo ristorante c’erano. C’erano anche i fastosi pasti da 350 euro, i pellegrinaggi dei gourmet entusiasti in Svizzera, venti giovani cuochi a supportarlo in cucina, il promettente erede Micheal Camiotto a spalleggiarlo.
Ha detto ieri a Repubblica Lorenzo Albrici, amico di vecchia data di Violier, chef e proprietario della Locanda Orico nel Canton Ticino: “Benoit era felice, ciò non toglie che la pressione cui vengono sottoposti gli chef oggi è inimmaginabile. Più arrivi in alto e meno hai diritto all’errore“.
Allora quali demoni si sono impadroniti della mente di Benoit Violier, che cosa ha davvero causato un suicidio così assurdo?
La polizia ha aperto un’indagine per chiarire le circostanze della morte, ma non sembrano esserci dubbi. Violier si è tolto la vita con un colpo di arma da fuoco (era un esperto cacciatore, e aveva anche scritto un libro di alta cucina sulla selvaggina) alla vigilia della presentazione della Guida Michelin francese.
Ancora non ci è dato sapere se si è trattato soltanto di un caso. Di certo non lo è stato per un altro chef, Bernard Loiseau, morto suicida il 24 febbraio del 2003 perché la Guida Michelin era intenzionata a togliere una stella a La Côte d’Or, il suo ristorante in Borgogna.
Ma da François Vatel in poi, cuoco e pasticciere alla corte di Luigi XIV, inventore della crema chantilly, morto suicida perché non aveva consegnato in tempo il pesce fresco per un grandioso banchetto a oltre 250 km di distanza, la pressione insostenibile ha fatto molte vittime tra i cuochi.
Homaro Cantu, 38 anni, era un vero alchimista della cosiddetta cucina molecolare, chef proprietario del Motu aveva definito il verbo “cucinare” come improprio: cucinare è comprendere l’energia, oppure la mancanza. Nel 2007, fu eletto Iron Chef America nel celebre programma tv con lo stesso titolo.
Cantu, un’infanzia difficile, nomea da enfant terrible, si è impiccato ad aprile dell’anno scorso in un locale che stava ristrutturando. Si sono fatte molte ipotesi: il crack economico del suo ristorante Moto, l’utilizzo di fondi illegali, oppure lo stress di essere sempre il primus inter pares,il più bravo tra i bravi.
Ma la lista delle vittime è lunga, anche se parliamo di chef ancora vivi, per fortuna.
Anthony Bourdain, chef americano autore di libri di successo come Kitchen Confidential e fortunati programmi tv, è un ex eroinomane; la sexy icona televisiva britannica Nigella Lawson ha ammesso di aver abusato di cocaina anche per per far fronte alla crisi del suo matrimonio.
Gordon Ramsay, invece, più volte beccato con un tasso alcolemico da delirio mentre era alla guida, è stato chiamato in causa per la morte di Rachel Brown, nel 2007, e di Joseph Cerniglia nel 2010: suicidi anche perché entrambi bocciati nell’edizione americana di Cucine da incubo.
Il mestiere di chef è in cima alla lista di quelli più richiesti al mondo, può sembrare una professione da sogno, ma non è così.
Intanto si lavora mediamente dalle 14 alle 18 ore al giorno, non ci sono domeniche, né Pasqua o Natale. Gestire un ristorante blasonato è tutt’altro che semplice. Dalla brigata di cucina, che dev’essere all’altezza e compensata di conseguenza, al personale di sala, dalla struttura costantemente ammodernata alla gestione della clientela, le cause di stress sono molte.
Tormentati dalla ricerca della perfezione, situazione che impedisce di gioire appieno dei veri privilegi aumentando la pressione, gli chef vengono sempre giudicati.
La moltiplicazione di guide, blog, siti di recensioni dei ristoranti non ha certo migliorato le cose. Ogni Paese ha almeno una guida nazionale, per non parlare di esperimenti internazionali e lapidari (vedi appunto La Liste francese), di Tripadvisor e delle stroncature anonime.
La luce dei riflettori che incoraggia molti giovani a intraprendere la professione non si spegne mai.
Opinioni, interviste, comparsate radio-televisive, presenza social, sia la gloria che gli scazzi si moltiplicano in modo esponenziale.
Diciamo una volte per tutte: il mestiere di chef è delicato, serve una vocazione vera. Servono talento, la calma ascetica di un monaco zen e molta resistenza alla fatica.
Uno chef mette tutto quello che ha nel suo ristorante. Non è solo un investimento aziendale, ma uno sforzo personale a volte titanico. E se fallisce, la disfatta è totale, non solo economica.
Se non si è forti capita di restare intrappolati. Così finisce l’inventiva, la sfida, a volte anche la vita.
[Crediti | Link: Dissapore, Chicago Tribune, Complex, Scotsman, Corriere]