Fatichiamo a credere che tutti i grandi chef abbiano le stesse intuizioni, gli stessi colpi di genio, la stessa illuminazione gastronomica: si sa che la cucina ruba, si autoalimenta e scopiazza.
Una volta c’è il crumble: apriti cielo, se non hai il crumble sei una nullità, il crumble dev’esserci, il crambol lo devono sapere pronunciare bene in sala, altrimenti il cliente non sa che abbiamo il crumble e il crumble deve esserci.
Passata la stagione stellata del crumble (magari due stagioni va, se il crumble è fortunato), è tempo di trovare nuove linee guida che permettano di far capire a chiunque che lo chef non brancola nel buio, lo chef sta sul pezzo.
Quindi, poi, succede che a qualche nome nell’Olimpo della gastronomia stellare venga l’idea (ormai qualche stagione fa) di infilare la verdura nel dessert.
In realtà la questione non mi trova scettica in partenza: questi anni di dolci “non dolci” ci hanno abituato a scossoni decisamente più indigesti di un po’ di pastinaca nel dolce. E poi c’è sempre la melanzana e il cioccolato, l’abbinata che farebbe far pace anche ai più scettici.
Accade, dicevamo.
E, una volta lanciata la “moda”, i menu dei grandi ristoranti si riempiono di dolcetti agli ortaggi, scalzando la frutta dal suo naturale e rassicurante posto in coda alla cena.
Abbiamo allora la mousse rosmarino e ricotta, l’insalata di frutta e verdura con sorbetto al cetriolo, il cremino al cioccolato con olive nere e sorbetto di capperi, “L’orto”: una sequenza di verdure, cereali e legumi al confine tra il dolce e salato, la minestra di frutta e verdura che ricrea visivamente la macedonia in scatola.
Ma lo stellato veramente à la page si stanca in fretta, viene presto colto da nuova ispirazione e, spesso, abbandona il trend così come lo aveva inaugurato, lasciandolo nelle fauci tritatutto del ristoratore medio, il più abile degli scopiazzatori.
[Non voglio in questa sede citare le lastre di ardesia diventate piaga sociale di appiattimento, non è necessario vero?]
Il ristoratore medio, dicevamo, quello che per darsi un tono, infila una zucchina nella millefoglie al caramello salato senza pensarci due volte. E, senza colpo ferire, rovina tutto il rovinabile.
In quello stesso momento, infatti, il dessert di verdura diventa una forzatura stucchevole che farebbe perdere la pazienza a chiunque.
Ecco, in un baleno, tornano simpatici i reazionari che avresti chiamato “noiosoni” fino a ieri, loro che vogliono solo il tiramisù, e nella versione più tradizionale del termine. Di carciofi, barbabietole, tuberi e cavolfiori, dopo il secondo piatto, non ne vogliamo più sentir parlare.
Scatta l’idiosincrasia come forma di autodifesa da sonanti piatti ciofeche che vorrebbero propinarci come nuova (nuova?) frontiera della cucina improbabile. E’ la misura, il vero problema.
Fino a che qualcuno getta nel mucchio distrattamente un gelato al basilico, non succede nulla. Ma poi entri nella trattoria che ha sempre fatto il tiramisù definitivo e ti si presenta un dessert innovativo che “puzza” di cetriolo. Per di più su una lastra di ardesia.
Il tutto, ovviamente, sta nella misura degli chef (stellari, medi o mediocri) che, come teen-ager attempate in preda a delirio da outfit obbligato, davanti al ritorno dell’ombelico scoperto, si rifanno il guardaroba con micro-corpetti che sono un po’ fuori tempo massimo.
[Crediti | Link e immagine: Vanity Fair]