Cosa bisogna fare di preciso per diventare Antonino Cannavacciuolo

Aldo Cazzullo intervista Antonino Cannavacciuolo sul Corriere della Sera. Ne viene fuori un ritratto che spiega come ha fatto lo chef di Vico Equense a diventare se stesso. Dalla difficile gavetta al successo di Masterchef passando per i genitori e la moglie Cinzia in una interessante biografia

Cosa bisogna fare di preciso per diventare Antonino Cannavacciuolo

Rompere le uova. Ottocento al giorno. E poi disossare prosciutti, lavare la cucina, pulire per terra.

Questi sono stati i primi incarichi nella carriera di Antonino Cannavacciuolo, rifilatore di sonore pacche sulla schiena nella serie “Cucine da incubo”, portato ai massimi livelli di popolarità  dal talent televisivo Masterchef, dove veste i panni del giudice inflessibile, riscuotendo ampi consensi e simpatie.

Ma la strada verso il successo di oggi, che lo vede tra i più apprezzati chef nazionali con il ristorante “Villa Crespi”, a Orta San Giulio, non è sempre stata costellata da applausi e popolarità, anzi.

Agli inizi della sua carriera lo chef ha dovuto sottoporsi a un duro lavoro e a occupazioni non esattamente gratificanti, come appunto rompere 800 uova al giorno, come lo stesso Cannavacciuolo racconta in una lunga intervista rilasciata a Aldo Cazzullo del Corriere della Sera.

800 uova aperte ogni giorno

antonino cannavacciuolo giovane

“Il primo incarico fu aprire le uova: romperle, separare il tuorlo dall’albume, montarle per il gelato alla vaniglia. Aprivo 800 uova al giorno, per fare 50 contenitori di gelato da mettere sulla macedonia e le fragoline di bosco. Alla fine c’era da lavare la cucina, scopare per terra, svuotare il magazzino”.

Poi Cannavacciuolo fu promosso ad altri incarichi, non certo meno faticosi: disossare prosciutti, circa venti al giorno, con cui preparare vagonate di canapè.

Una gavetta dura, non esente da fatica e metodi che oggi sarebbero considerati del tutto inammissibili:

Le mazzate rifilate dallo chef

antonino cannavacciuolo giovane

“Sono andato a lavorare in cucina a 13 anni e mezzo – ricorda lo chef. La notte tornavo a casa con spalle e braccia blu per le mazzate che mi rifilava uno chef. Mia mamma voleva protestare. Mio padre disse: “Se gliele ha date, significa che se le meritava”. Ora quello chef lo arresterebbero per maltrattamenti. A me è servito”.

Come sono serviti gli insegnamenti del padre Andrea, professore all’Istituto Alberghiero di Vico Equense, in provincia di Sorrento Napoli, paese natale dello chef, che tra gli hobby ha quello della scultura, con l’utilizzo di qualunque tipo di materiale, legno, zucche, burro, margarina o anche ghiaccio.

“Mio padre ha inventato il presepe del ‘900, con il ciabattino che aggiusta le Timberland. Da ragazzo studiavo nella scuola dove papà insegnava, e lavoravo nell’hotel dove cucinava: La Sonrisa, un cinque stelle a Sant’Antonio Abate, vicino a Pompei; quello dove adesso hanno ambientato Il boss delle cerimonie, la trasmissione tv di Real Time», dice lo chef.

Ma tutta quell’esperienza è servita a imparare il mestiere, ad arrivare ai successi di oggi.

La gavetta nell’hotel del boss delle cerimonie

cannavacciuolo

Costante è il riferimento di Canavacciuolo sull’importanza di apprendere un mestiere tramite il duro lavoro, senza sconti  e senza scorciatoie:

“Imparare un mestiere è la cosa più importante, e l’unico modo è il lavoro.  Ancora adesso io saprei disossare un maiale: filetto, controfiletto, cosciotto, ossa, il taglio per il bollito, quello per gli hamburger… Da ragazzino mi veniva la febbre per la fatica, e mio padre mi mandava a dormire in macchina; solo una volta mi portò in ospedale perché avevo le gambe gonfie appunto come prosciutti.

Alla Sonrisa si teneva il festival della canzone napoletana: c’era un ragazzino bravissimo che aveva studiato al conservatorio, suonava il piano e la chitarra: Gigi D’Alessio. E veniva in ritiro il Napoli: Careca, Alemao, Bruno Giordano, il mitico Bruscolotti. E Maradona».

Lo chef continua a esporre il suo pensiero parlando d’Italia,  alla sua economia ed al settore che maggiormente lo interessa, quello agroalimentare, senza risparmiare severe stoccate allo Stato.

“Sono legatissimo al nostro Paese e soffro a vederlo così depresso. Il Sud può diventare l’orto d’Europa. Ora sul palcoscenico ci siamo noi chef; ma tra dieci anni ci saranno i contadini. Sono stufo di lavorare arance spagnole mentre in Sicilia abbattono gli agrumeti. Basta con il pesce del Marocco o della Tanzania mentre i nostri pescatori pagano il gasolio con accise scandinave. Più lavori, più lo Stato ti penalizza; dovrebbe essere il contrario. Anzi, basta anche con questa retorica contro lo Stato. Lo Stato siamo noi. Non facciamo sempre le vittime, ritroviamo il gusto del lavoro a regola d’arte».

La naja e la moglie Cinzia

cannavacciuolo con moglie cinzia

Intanto, l’esperienza di Cannavacciuolo si arricchiva:  a 16 anni è andato  a Napoli,  a cucinare all’Hotel Vesuvio. Poi  al San Vincenzo, tra Vico e Meta di Sorrento, da Giosuè Maresca:  “Qui le botte erano scherzose;  una volta in tre prendemmo da parte Giosué e gliene restituimmo una buona parte” .  Inoltre, per arrotondare lo stipendio, faceva il falegname.  E poi, la naja, dove ovviamente il nostro fu messo in cucina:

“A 19 anni sono partito militare, a Orvieto: ovviamente mi misero in cucina. Preparavo un buffet con un veliero di zucca, fiori fatti con i rapanelli, le salsicce fresche: anche gli ufficiali venivano a mangiare alla nostra mensa. Dopo la naia arrivai qui, sul lago d’Orta, all’Approdo, dove divenni amico della figlia del proprietario, Cinzia. Amici e basta, per due anni”.

Ma l’attrazione per quella che diventerà la moglie dei uno dei più amati chef nazionale è già scoccata:

“Poi tornai al Sud, al Quisisana di Capri –  continua lo chef-  e Cinzia venne a trovarmi. È stata lei la capocciona. Scattò la scintilla. Ora è mia moglie».

Oggi i giovani chef sono viziati 

antonino cannavacciuolo

Cannavaccioulo ha un’idea chiara sui giovani che oggi si avvicinano al mondo della ristorazione:

“Nelle cucine del Quisisana eravamo in venti. Metà erano parassiti, di cui si sono perse le tracce. I dieci che lavoravano hanno fatto tutti strada: Oliver Glowig ha preso due stelle Michelin all’Olivo, il ristorante dell’hotel di Tonino Cacace ad Anacapri; Nazzareno Menghini è andato a Roma al De Russie; Ciro Salatiello ha inventato il kepurp, il polpo arrostito come un kebab”.

E sono questi esempi che chiariscono il pensiero di Cannavacciuolo sui giovani cuochi,  ammaliati spesso più dal lato mediatico che da quello essenziale del mestiere di cuoco e poco inclini al sudore e alla fatica che regnano in cucina.

“Voglio dire che le opportunità ci sono. Non ne posso più di questo coro di lamenti. La protesta a volte è giusta; ma il lamento non serve a niente. Non stai bene in un posto? Vattene e prova da un’altra parte. Chi trova un bravo apprendista non lo manda via. Io per fare i miei stage in Alsazia pagavo: all’Auberge de l’Ill lo chef ottantenne arrivava alle 6 del mattino, ci trovava già al lavoro, apriva i frigo, e se vedeva qualcosa scoperto erano cazziate.

Oggi i ragazzi sono troppo viziati; e la colpa è nostra. Anche mia. Sono il primo a viziare un po’ troppo i miei figli, Elisa e Andrea. Però nella mia cucina le ore non si contano. È sempre aperta: non vado mai a dormire prima delle 3, e alle 3 e mezza arriva il panettiere».

Massimo Bottura è davvero il numero 1 al mondo

cannavacciuolo chef e giudice

Cannavaccioulo parla anche del talent televisivo che l’ha resto celebre, dei  colleghi e della sua città, Napoli.

Di Masterchef,  Cannavacciuolo dice che lo diverte, perché non recita ma è veramente se stesso: “Non ho i tempi televisivi, non ho il linguaggio. Mi dicono però che ho un mio stile. Con i colleghi mi trovo benissimo. Barbieri, il nano malefico. Bastianich, il businessman. Cracco, un grande”.

Nonostante le patatine?

“Chi non ha mai mangiato una patatina? –risponde lo chef– e poi con me è delizioso. Tutto il gruppo degli chef italiani è cresciuto in questi anni. Tra noi siamo uniti. Massimo Bottura è davvero il numero 1 al mondo, e la cosa mi riempie di gioia perché all’estero Bottura vuol dire Italia; così com’ero triste quando c’era la monnezza in strada a Napoli, e all’estero non pensavano a Napoli ma all’Italia”.

Un amore viscerale, per Napoli, che si riflette anche nel modo di parlare:

“È che traduco dal napoletano. Io penso e sogno in napoletano. Parlo italiano come uno di voi parla inglese; e mi capita di sbagliare qualche parola”.

Quando Maradona venne al Villa Crespi

antonino cannavacciuolo villa crespi

Da buon campano, Cannavacciuolo è legatissimo alla sua terra, alla famiglia  e alle  tradizioni:

“Sono legatissimo alla mia famiglia. A Natale ho bevuto con papà un Barolo del 1949, il suo anno di nascita. E sono legatissimo alla memoria di sua madre, nonna Fiorentina. L’ultima parola che ha detto è stata il mio nome: “Salutame a Tonino”. Quando sono in difficoltà o in ansia, la sento sempre. In tv, prima che si accendano le telecamere, o allo stadio Olimpico, dove ho cucinato davanti al pubblico, la penso e lei mi risponde. Grazie a nonna credo nella vita dopo la morte, e non ho paura”.

E non poteva certo mancare un accenno all’idolo del calcio napoletano, Maradona, che Cannavaccioulo ha conosciuto personalmente:

“Nel 2006 venne qui al Villa Crespi tre giorni. In incognito. E io l’ho protetto. Si era sparsa la voce, chiamavano i giornalisti, e io negavo. Era a dieta. Dormiva di giorno e alle 4 di notte chiamava il room service: spaghetti alla genovese, scampi in emulsione di polpo, ma anche paccheri al ragù napoletano.

Nei giorni del primo scudetto di Maradona –continua lo chef– ho visto tagliare il tettuccio delle auto con la sega elettrica, per farne decappottabili su cui girare in dieci, me compreso, a festeggiare. Scrissero la formazione del Napoli sui palazzi, dipinsero le scalinate delle chiese di bianco e azzurro. E poi quella scritta al cimitero: “Che vi siete persi…”. Mio figlio Andrea ha 4 anni, vive qui vicino alla Svizzera, ma si sente napoletano e tifa Napoli”.

Così come viene istintivo per Cannavacciuolo, che con la stazza, le pacche sulle spalle, i modi autentici lontani dal divismo che impera tra gli star-chef, è diventato uno degli chef più amati dagli italiani.

Pensando e sognando in napoletano.

[Crediti | Link: Corriere della Sera].